Luigi Pirandello, www.pirandelloweb.com

« Older   Newer »
  Share  
camillamencarelli
view post Posted on 7/4/2005, 00:25




LUIGI PIRANDELLO

www.pirandelloweb.com

Nacque a Girgenti (oggi Agrigento) nel 1867. Nel 1891 si laureò nell’università di Bonn e due anni dopo si trasferì a Roma, dove insegnò lingua e letteratura italiana nell’Istituto superiore di Magistero dal 1897 al 1922. Nel 1926 allestì una propria compagnia teatrale per rappresentare i suoi lavori in Italia ed all’estero. Nel 1934 ottenne il Premio Nobel e due anni dopo morì a Roma.
 
Top
svid
icon6  view post Posted on 7/4/2005, 00:49




Sei personaggi in cerca d'autore
di Luigi Pirandello



I PERSONAGGI DELLA COMMEDIA DA FARE
Il padre
La madre
La figliastra
Il figlio
Il giovinetto
La bambina
(questi ultimi due non parlano)
(Poi, evocata) Madama Pace

GLI ATTORI DELLA COMPAGNIA
Il direttore-capocomico
La prima attrice
Il primo attore
La seconda donna
L'attrice giovane
L'attor giovane
Altri attori e attrici
Il direttore di scena
Il suggeritore
Il trovarobe
Il macchinista
Il segretario del capocomico
L'uscere del teatro
Apparatori e servi di scena

Di giorno, su un palcoscenico di teatro di prosa.

N.B. La commedia non ha atti né scene. La rappresentazione sarà interrotta una prima volta, senza che il sipario s'abbassi; allorché il Direttore Capocomico e il capo dei personaggi si ritireranno per concertar lo scenario e gli attori sgombreranno il palcoscenico; una seconda volta, allorché per isbaglio il Macchinista butterà giù il sipario.

Troveranno gli spettatori, entrando nella sala del teatro, alzato il sipario, e il palcoscenico com'è di giorno, senza quinte né scena, quasi al bujo e vuoto, perché abbiano fin da principio l'impressione d'uno spettacolo non preparato.
Due scalette, una a destra e l'altra a sinistra, metteranno in comunicazione il palcoscenico con la sala.
Sul palcoscenico il cupolino del suggeritore, messo da parte, a canto alla buca.
Dall'altra parte, sul davanti, un tavolino e una poltrona con spalliera voltata verso il pubblico, per il Direttore-Capocomico.
Altri due tavolini, uno più grande, uno più piccolo, con parecchie sedie attorno, messi lì sul davanti per averli pronti, a un bisogno, per la prova. Altre sedie, qua e lì: a destra e a sinistra, per gli Attori; e un pianoforte in fondo, da un lato, quasi nascosto.
Spenti i lumi nella sala, si vedrà entrare dalla porta del palcoscenico il macchinista in camiciotto turchino e sacca appesa alla cintola; prendere da un angolo in fondo alcuni assi d'attrezzatura; disporli sul davanti e mettersi in ginocchio e inchiodarli. Alle martellate accorrerà dalla porta dei camerini il Direttore di scena.

Il direttore di scena: Oh! Che fai?
Il macchinista: Che faccio? Inchiodo.
Il direttore di scena: A quest'ora? (Guarderà l'orologio.) Sono già le dieci e mezzo. A momenti sarà qui il Direttore per la prova.
Il macchinista: Ma dico, dovrò avere anch'io il mio tempo per lavorare!
Il direttore di scena: L'avrai, ma non ora.
Il macchinista: E quando?
Il direttore di scena: Quando non sarà più l'ora della prova. Su, su, portati via tutto, e lasciami disporre la scena per il secondo atto del Giuoco delle parti

Il macchinista, sbuffando, borbottando, raccatterà gli assi e andrà via. Intanto dalla porta del palcoscenico cominceranno a venire gli attori della Compagnia, uomini e donne, prima uno, poi un altro, poi due insieme, a piacere: nove o dieci, quanti si suppone che debbano prender parte alle prove della commedia di Pirandello Il giuoco delle parti, segnata all'ordine del giorno. Entreranno, saluteranno il Direttore di scena e si saluteranno tra loro augurandosi il buon giorno. Alcuni si avvieranno ai loro camerini; altri, fra cui Il suggeritore che avrà il copione arrotolato sotto il braccio, si fermeranno sul palcoscenico in attesa del Direttore per cominciar la prova, e intanto, o seduti a crocchio, o in piedi, scambieranno tra loro qualche parola; e chi accenderà una sigaretta, chi si lamenterà della parte che gli è stata assegnata, chi leggerà forte ai compagni qualche notizia in un giornaletto teatrale. Sarà bene che tanto le Attrici quanto gli Attori siano vestiti d'abiti piuttosto chiari e gai, e che questa prima scena a soggetto abbia, nella sua naturalezza, molta vivacità. A un certo punto, uno dei comici potrà sedere al pianoforte e attaccare un ballabile; i più giovani tra gli Attori e le Attrici si metteranno a ballare.

Il direttore di scena: (battendo le mani per richiamarli alla disciplina). Via, smettetela! Ecco il signor Direttore!

Il suono e la danza cesseranno d'un tratto. Gli Attori si volteranno a guardare verso la sala del tetro, dalla cui porta si vedrà entrare il Direttore-Capocomico, il quale, col cappello duro in capo, il bastone sotto il braccio e un grosso sigaro in bocca, attraverserà il corridojo tra le poltrone e, salutato dai comici, salirà per una delle due scalette sul palcoscenico. Il segretario gli porgerà la posta: qualche giornale, un copione sottofascia.

Il capocomico: Lettere?
Il segretario: Nessuna. La posta è tutta qui.
Il capocomico: (porgendogli il copione sottofascia). Porti in camerino. (Poi, guardandosi attorno e rivolgendosi al Direttore di scena): Oh, qua non ci si vede. Per piacere, faccia dare un po' di luce.
Il direttore di scena: Subito.

Si recherà a dar l'ordine. E poco dopo il palcoscenico sarà illuminato in tutto il lato destro, dove staranno gli Attori, d'una viva luce bianca. Nel mentre, Il suggeritore avrà preso posto nella buca, accesa la lampadina e steso davanti a sè il copione.

Il capocomico: (battendo le mani). Su, su, cominciamo. (Al Direttore di scena): Manca qualcuno?
Il direttore di scena: Manca la prima attrice.
Il capocomico: Al solito! (Guarderà l'orologio.) Siamo già in ritardo di dieci minuti. La segni, mi faccia il piacere. Così imparerà a venire puntuale alla prova.

Non avrà finito la reprensione, che dal fondo della sala si udrà la voce della prima attrice.

La prima attrice: No, no, per carità! Eccomi! Eccomi! (È tutta vestita di bianco, con un cappellone spavaldo in capo e un grazioso cagnolino tra le braccia; correrà attraverso il corridojo delle poltrone e salirà in gran fretta una delle scalette.)
Il capocomico: Lei ha giurato di farsi sempre aspettare.
La prima attrice: Mi scusi. Ho cercato tanto una automobile per fare a tempo! Ma vedo che non avete ancora cominciato. E io non sono subito di scena. (Poi, chiamando per nome il Direttore di scena e consegnandogli il cagnolino:) Per piacere, me lo chiuda nel camerino.
Il capocomico: (borbottando) Anche il cagnolino! Come se fossimo pochi i cani qua. (Batterà di nuovo le mani e si rivolgerà al Suggeritore:) Su, su, il secondo atto del Giuoco delle parti. (Sedendo sulla poltrona:) Attenzione, signori. Chi è di scena?

Gli Attori e le Attrici sgombreranno il davanti del palcoscenico e andranno a sedere da un lato, tranne i tre che principieranno la prova e La prima attrice, che, senza badare alla domanda del Capocomico, si sarà messa a sedere davanti ad uno dei due tavolini.

Il capocomico: (alLa prima attrice) Lei dunque è di scena?
La prima attrice: Io, nossignore.
Il capocomico: (seccato) E allora si levi, santo Dio!

La prima attrice si alzerà e andrà a sedere accanto agli altri Attori che si saranno già tratti in disparte.

Il capocomico: (al Suggeritore) Cominci, Cominci.
Il segretario: (leggendo nel copione) "In casa di Leone Gala. Una strana sala da pranzo e da studio."
Il capocomico: (volgendosi al Direttore di scena) Metteremo la sala rossa.
Il direttore di scena: (segnando su un foglio di carta) La rossa. Sta bene.
Il segretario: (seguitando a leggere nel copione) "Tavola apparecchiata e scrivania con libri e carte. Scaffali di libri e vetrine con ricche suppellettili da tavola. Uscio in fondo per cui si va nella camera da letto di Leone. Uscio laterale a sinistra per cui si va nella cucina. La comune è a destra."
Il capocomico: (alzandosi e indicando) Dunque, stiano bene attenti: di là, la comune. Di qua, la cucina. (Rivolgendosi all'Attore che farà la parte di Socrate): Lei entrerà e uscirà da questa parte. (Al Direttore di scena): Applicherà la bussola in fondo, e metterà le tendine.

Tornerà a sedere.

Il direttore di scena: (segnando) Sta bene.
Il segretario: (leggendo c.s.) "Scena Prima. Leone Gala, Guido Venanzi, Filippo detto Socrate." (Al Capocomico): Debbo leggere anche la didascalia?
Il capocomico: Ma sì! si! Gliel'ho detto cento volte!
Il segretario: (leggendo c.s.) "Al levarsi della tela, Leone Gala, con berretto da cuoco e grembiule, e intento a sbattere con un mestolino di legno un uovo in una ciotola. Filippo ne sbatte un altro, parato anche lui da cuoco. Guido Venanzi ascolta, seduto."
Il primo attore: (al Capocomico) Ma scusi, mi devo mettere proprio il berretto da cuoco in capo?
Il capocomico: (urtato dall'osservazione) Mi pare! Se sta scritto lì! (Indicherà il copione.)
Il primo attore: Ma è ridicolo, scusi!
Il capocomico: (balzandi in piedi sulle furie) "Ridicolo! ridicolo!" Che vuole che le faccia io se dalla Francia non ci viene più una buona commedia, e ci siamo ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l'intende è bravo, fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti?

Gli Attori rideranno. E allora egli alzandosi e venendo presso Il primo attore, griderà:

Il berretto da cuoco, sissignore! E sbatta le uova! Lei crede, con codeste uova che sbatte, di non aver poi altro per le mani? Sta fresco! Ha da rappresentare il guscio delle uova che sbatte!

Gli Attori torneranno a ridere e si metteranno a far commenti tra loro ironicamente.

Silenzio! E prestino ascolto quando spiego! (Rivolgendosi di nuovo al Primo Attore): Sissignore, il guscio: vale a dire la vuota forma della ragione, senza il pieno dell'istinto che è cieco! Lei è la ragione, e sua moglie l'istinto: in un giuoco di parti assegnate, per cui lei che rappresenta la sua parte è volutamente il fantoccio di se stesso. Ha capito?
Il primo attore: (aprendo le braccia) Io no!
Il capocomico: (tornandosene al suo posto) E io nemmeno! Andiamo avanti, che poi mi loderete la fine! (In tono confidenziale): Mi raccomando, si metta di tre quarti, perché se no, tra le astruserie del dialogo e lei che non si farà sentire dal pubblico, addio ogni cosa! (Battendo di nuovo le mani): Attenzione, attenzione! Attacchiamo!
Il segretario: Scusi, signor Direttore, permette che mi ripari col cupolino? Tira una cert'aria!
Il capocomico: Ma sì, faccia, faccia!

L'uscere del teatro sarà intanto entrato nella sala, col berretto gallonato in capo e, attraversato il corridojo fra le poltrone, si sarà appressato al palcoscenico per annunziare al Direttore-Capocomico l'arrivo dei Sei Personaggi, che, entrati anch'essi nella sala, si saranno messi a seguirlo, a una certa distanza, un po' smarriti e perplessi, guardandosi attorno.

Chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia bisogna che s'adoperi con ogni mezzo a ottenere tutto l'effetto che questi Sei Personaggi non si confondano con gli Attori della Compagnia. La disposizione degli uni e degli altri, indicata nelle didascalie, allorché quelli saliranno sul palcoscenico, gioverà senza dubbio; come una diversa colorazione luminosa per mezzo di appositi riflettori. Ma il mezzo più efficace e idoneo, che qui si suggerisce, sarà l'uso di speciali maschere per i Personaggi: maschere espressamente costruite d'una materia che per il sudore non s'afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che dovranno portarle: lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e la bocca. S'interpreterà così anche il senso profondo della commedia. I Personaggi non dovranno infatti apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni della fantasia immutabili: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori. Le maschere ajuteranno a dare l'impressione della figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell'espressione del proprio sentimento fondamentale, che è il rimorso per il Padre, la vendetta per la Figliastra, lo sdegno per il Figlio, il dolore per la Madre con fisse lagrime di cera nel livido delle occhiaje e lungo le gote, come si vedono nelle immagini scolpite e dipinte della Mater dolorosa nelle chiese. E sia anche il vestiario di stoffa e foggia speciale, senza stravaganze, con pieghe rigide e volume quasi statuario, e insomma di maniera che non dia l'idea che sia fatto d'una stoffa che si possa comperare in una qualsiasi bottega della città e tagliato e cucito in una qualsiasi sartoria.

Il Padre sarà sulla cinquantina: stempiato, ma non calvo, fulvo di pelo, con baffetti folti quasi acchiocciolati attorno alla bocca ancor fresca, aperta spesso a un sorriso incerto e vano. Pallido, segnatamente nell'ampia fronte; occhi azzurri ovati, lucidissimi e arguti; vestirà calzoni chiari e giacca scura: a volte sarà mellifluo, a volte avrà scatti aspri e duri.

La Madre sarà come atterrita e schiacciata da un peso intollerabile di vergogna e d'avvilimento. Velata da un fitto crespo vedovile, vestirà umilmente di nero, e quando solleverà il velo, mostrerà un viso non patito, ma come di cera, e terrà sempre gli occhi bassi.

La Figliastra, di diciotto anni, sarà spavalda, quasi impudente. Bellissima, vestirà a lutto anche lei, ma con vistosa eleganza. Mostrerà dispetto per l'aria timida, afflitta e quasi smarrita del fratellino, squallido Giovinetto di quattordici anni, vestito anch'egli di nero; e una vivace tenerezza, invece, per la sorellina, Bambina di circa quattro anni, vestita di bianco con una fascia di seta nera alla vita.

Il Figlio, di ventidue anni, alto, quasi irrigidito in un contenuto sdegno per il Padre e in un'accigliata indifferenza per la Madre, porterà un soprabito viola e una lunga fascia verde girata attorno al collo.

L'uscere: (col berretto in mano) Scusi, signor Commendatore.
Il capocomico: (di scatto, sgarbato) Che altro c'è?
L'uscere: (timidamente) Ci sono qua certi signori, che chiedono di lei.

Il capocomico e gli Attori si volteranno stupiti a guardare dal palcoscenico giù nella sala.

Il capocomico: (di nuovo sulle furie) Ma io qua provo! E sapete bene che durante la prova non deve passar nessuno! (Rivolgendosi in fondo): Chi sono lor signori? Che cosa vogliono?
Il padre: (facendosi avanti, seguito dagli altri, fino a una delle due scalette) Siamo qua in cerca d'un autore
Il capocomico: (fra stordito e irato) D'un autore? Che autore?
Il padre: D'uno qualunque, signore.
Il capocomico: Ma qui non c'è nessun autore, perché non abbiamo in prova nessuna commedia nuova.
La figliastra: (con gaja vivacità, salendo di furia la scaletta). Tanto meglio, tanto meglio, allora, signore! Potremmo esser noi la loro commedia nuova.
Qualcuno degli attori: (fra i vivaci commenti e le risate degli altri) Oh, senti, senti!
Il padre: (seguendo sul palcoscenico la figliastra). Già, ma se non c'è l'autore! (Al Capocomico): Tranne che non voglia esser lei...

La Madre, con la Bambina per mano, e il Giovinetto saliranno i primi scalini della scaletta e resteranno lì in attesa. Il Figlio resterà sotto, scontroso.

Il capocomico: Lor signori vogliono scherzare?
Il padre: No, che dice mai, signore! Le portiamo al contrario un dramma doloroso.
La figliastra: E potremmo essere la sua fortuna!
Il capocomico: Ma mi facciano il piacere d'andar via, che non abbiamo tempo da perdere coi pazzi!
Il padre: (ferito e mellifluo) Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d'infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere.
Il capocomico: Ma che diavolo dice?
Il padre: Dico che può stimarsi realmente una pazzia, sissignore, sforzarsi di fare il contrario; cioè, di crearne di verosimili, perché pajano vere. Ma mi permetta di farle osservare che, se pazzia è, questa è pur l'unica ragione del loro mestiere.

Gli Attori si agiteranno, sdegnati.

Il capocomico: (alzandosi e squadrandolo) Ah sì? Le sembra un mestiere da pazzi, il nostro?
Il padre: Eh, far parer vero quello che non è; senza bisogno, signore: per giuoco... Non è loro ufficio dar vita sulla scena a personaggi fantasticati?
Il capocomico: (subito facendosi voce dello sdegno crescente dei suoi Attori) Ma io la prego di credere che la professione del comico, caro signore, è una nobilissima professione! Se oggi come oggi i signori commediografi nuovi ci danno da rappresentare stolide commedie e fantocci invece di uomini, sappia che è nostro vanto aver dato vita - qua, su queste tavole - a opere immortali!

Gli Attori, soddisfatti, approveranno e applaudiranno il loro Capocomico.

Il padre: (interrompendo e incalzando con foga). Ecco! benissimo! a esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse; ma più veri! Siamo dello stessissimo parere!

Gli Attori si guardano tra loro, sbalorditi.

Il direttore: Ma come! Se prima diceva...
Il padre: No, scusi, per lei dicevo, signore, che ci ha gridato di non aver tempo da perdere coi pazzi, mentre nessuno meglio di lei può sapere che la natura si serve da strumento della fantasia umana per proseguire, più alta, la sua opera di creazione.
Il capocomico: Sta bene, sta bene. Ma che cosa vuol concludere con questo?
Il padre: Niente, signore. Dimostrarle che si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla... o donna. E che si nasce anche personaggi!
Il capocomico: (con finto ironico stupore) E lei, con codesti signori attorno, è nato personaggio?
Il padre: Appunto, signore. E vivi, come ci vede.

Il capocomico e gli Attori scoppieranno a ridere, come per una burla.

Il padre: (ferito) Mi dispiace che ridano così, perché portiamo in noi, ripeto, un dramma doloroso, come lor signori possono argomentare da questa donna velata di nero.

Così dicendo porgerà la mano alla Madre per aiutarla a salire gli ultimi scalini e, seguitando a tenerla per mano, la condurrà con una certa tragica solennità dall'altra parte del palcoscenico, che s'illuminerà subito di una fantastica luce. La Bambina e il Giovinetto seguiranno la Madre; poi il Figlio, che si terrà discosto, in fondo; poi la figliastra, che s'apparterà anche lei sul davanti, appoggiata all'arcoscenico. Gli Attori, prima stupefatti, poi ammirati di questa evoluzione, scoppieranno in applausi come per uno spettacolo che sia stato loro offerto.

Il capocomico: (prima sbalordito, poi sdegnato) Ma via! Facciano silenzio! (Poi, rivolgendosi ai Personaggi): E loro si levino! Sgombrino di qua! (Al Direttore di scena): Perdio, faccia sgombrare!
Il direttore di scena: (facendosi avanti, ma poi fermandosi, come trattenuto da uno strano sgomento) Via! Via!
Il padre: (al Capocomico) Ma no, veda, noi...
Il capocomico: (gridando) Insomma, noi qua dobbiamo lavorare!
Il primo attore: Non è lecito farsi beffe così...
Il padre: (risoluto, facendosi avanti) Io mi faccio maraviglia della loro incredulità! Non sono forse abituati lor signori a vedere balzar vivi quassù, uno di fronte all'altro, i personaggi creati da un autore? Forse perché non c'è là (indicherà la buca del Suggeritore) un copione che ci contenga?
La figliastra: (facendosi avanti al Capocomico, sorridente, lusingatrice) Creda che siamo veramente sei personaggi, signore, interessantissimi! Quantunque, sperduti.
Il padre: (scartandola) Sì, sperduti, va bene! (Al Capocomico subito): Nel senso, veda, che l'autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non potè materialmente, metterci al mondo dell'arte. E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l'uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha neanche bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché - vivi germi - ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l'eternità!
Il capocomico: Tutto questo va benissimo! Ma che cosa vogliono loro qua?
Il padre: Vogliamo vivere, signore!
Il capocomico: (ironico) Per l'eternità?
Il padre: No, signore: almeno per un momento, in loro.
Un attore: Oh, guarda, guarda!
La prima attrice: Vogliono vivere in noi!
L'attor giovane: (indicando la figliastra) Eh, per me volentieri, se mi toccasse quella lì!
Il padre: Guardino, guardino: la commedia è da fare; (al Capocomico): ma se lei vuole e i suoi attori vogliono, la concerteremo subito tra noi!
Il capocomico: (seccato) Ma che vuol concertare! Qua non si fanno di questi concerti! Qua si recitano drammi e commedie!
Il padre: E va bene! Siamo venuti appunto per questo qua da lei!
Il capocomico: E dov'è il copione?
Il padre: È in noi, signore.

Gli attori rideranno.

Il dramma è in noi; siamo noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, così come dentro ci urge la passione!
La figliastra: (schernevole, con perfida grazia di caricata impudenza) La passione mia, se lei sapesse, signore! La passione mia...per lui!

Indicherà il padre e farà quasi per abbracciarlo; ma scoppierà poi in una stridula risata.

Il padre: (con scatto iroso) Tu statti a posto, per ora! E ti prego di non ridere così!
La figliastra: No? E allora mi permettano: benché orfana da appena due mesi, stiano a vedere lor signori come canto e come danzo!

Accennerà con malizia il "Prends garde ... Tchou-Thin-Tchou" di Dave Stamper ridotto a Fox-trot o One-Step lento da Francis Salabert: la prima strofa, accompagnandola con passo di danza.

Les chinois sont un peuple malin,
De Shangai... Pekin,
Ils ont mis des criteaux partout:
Prenez garde... Tchou -Thin -Tchou!

Gli Attori, segnatamente i giovani, mentre ella canterà e ballerà, come attratti da un fascino strano, si moveranno verso lei e leveranno appena le mani quasi a ghermirla. Ella sfuggirà e, quando gli Attori scoppieranno in applausi, resterà, alla riprensione del Capocomico, come astratta e lontana.

Gli attori e le attrici: (ridendo e applaudendo) Bene! Brava! Benissimo!
Il capocomico: (irato) Silenzio! Si credono forse in un caffè-concerto? (Tirandosi un po' in disparte il padre, con una certa costernazione): Ma dica un po', è pazza?
Il padre: No, che pazza! È peggio!
La figliastra: (subito accorrendo al Capocomico) Peggio! Peggio! Eh altro, signore! Peggio! Senta, per favore: ce lo faccia rappresentar subito, questo dramma, perché vedrà che a un certo punto, io - quando questo amorino qua (prenderà per mano la Bambina che se ne starà presso la Madre e la porterà davanti al Capocomico) vede com'è bellina? (la prenderà in braccio e la bacerà) cara! cara! (La rimetterà a terra e aggiungerà, quasi senza volere, commossa): ebbene, quando quest'amorino qua, Dio la toglierà d'improvviso a quella povera madre: e quest'imbecillino qua (spingerà avanti il Giovinetto, afferrandolo per una manina sgarbatamente) farà la più grossa delle corbellerie, proprio da quello stupido che è (lo ricaccerà con una spinta verso la Madre) allora vedrà che io prenderò il volo! Sissignore! prenderò il volo! il volo! E non mi par l'ora, creda, non mi par l'ora! Perché, dopo quello che è avvenuto di molto intimo tra me e lui (indicherà il padre con un orribile ammiccamento) non posso più vedermi in questa compagnia, ad assistere allo strazio di quella madre per quel tomo là (indicherà il Figlio) lo guardi! lo guardi! indifferente, gelido lui, perché è il figlio legittimo, lui! pieno di sprezzo per me, per quello là, (indicherà il Giovinetto) per quella creaturina; ché siamo bastardi - ha capito? bastardi. (Si avvicinerà alla Madre e l'abbraccerà). E questa povera madre - lui - che è la madre comune di noi tutti - non la vuol riconoscere per madre anche sua - e la considera dall'alto in basso, lui, come madre soltanto di noi tre bastardi - vile!

Dirà tutto questo, rapidamente, con estrema eccitazione e arrivata al "vile" finale, dopo aver gonfiato la voce sul "bastardi", lo pronunzierà piano, quasi sputandolo.

La madre: (con infinita angoscia al Capocomico) Signore, in nome di queste due creaturine, la supplico... (si sentirà mancare e vacillerà) - oh Dio mio...
Il padre: (accorrendo a sorreggerla con quasi tutti gli Attori sbalorditi e costernati). Per carità una sedia, una sedia a questa povera vedova!
Gli attori: (accorrendo) - Ma è dunque vero? - Sviene davvero?
Il capocomico: Qua una sedia, subito!

Uno degli Attori offrirà una sedia; gli altri si faranno attorno premurosi. La madre, seduta, cercherà d'impedire che il padre le sollevi il velo che le nasconde la faccia.

Il padre: La guardi, signore, la guardi...
La madre: Ma no, Dio, smettila!
Il padre: Lasciati vedere! (Le solleverà il velo).
La madre: (alzandosi e recandosi le mani al volto, disperatamente). Oh, signore, la supplico d'impedire a quest'uomo di ridurre a effetto il suo proposito, che per me è orribile!
Il capocomico: (soprappreso, stordito) Ma io non capisco più dove siamo, né di che si tratti! (Al Padre): Questa è la sua signora?
Il padre: (subito) Sissignore, mia moglie!
Il capocomico: E com'è dunque vedova, se lei è vivo?

Gli Attori scaricheranno tutto il loro sbalordimento in una fragorosa risata.

Il padre: (ferito, con aspro risentimento) Non ridano! Non ridano così, per carità! È appunto questo il suo dramma, signore. Ella ebbe un altro uomo. Un altro uomo che dovrebbe esser qui!
La madre: (con un grido) No! No!
La figliastra. Per sua fortuna è morto: da due mesi, glie l'ho detto. Ne portiamo ancora il lutto, come vede.
Il padre: Ma non è qui, veda, non già perché sia morto. Non è qui perché - la guardi, signore, per favore, e lo comprenderà subito! - Il suo dramma non potè consistere nell'amore di due uomini, per cui ella, incapace, non poteva sentir nulla - altro, forse, che un po' di riconoscenza (non per me: per quello!) - Non è una donna, è una madre! - E il suo dramma - (potente, signore, potente!) consiste tutto, difatti, in questi quattro figli dei due uomini ch'ella ebbe.
La madre: Io, li ebbi? Hai il coraggio di dire che fui io ad averli, come se li avessi voluti? Fu lui, signore! Me lo diede lui, quell'altro, per forza! Mi costrinse, mi costrinse ad andar via con quello!
La figliastra: (di scatto, indignata) Non è vero!
La madre: (sbalordita) Come non è vero?
La figliastra; Non è vero! Non è vero!
La madre: E che puoi saperne tu?
La figliastra: Non è vero! (Al Capocomico): Non ci creda! Sa perché lo dice? Per quello lì (indicherà il Figlio) lo dice! Perché si macera, si strugge per la noncuranza di quel figlio lì, a cui vuol dare a intendere che, se lo abbandonò di due anni, fu perché lui (indicherà il padre) la costrinse.
La madre: (con forza) Mi costrinse, mi costrinse, e ne chiamo Dio in testimonio! (Al Capocomico): Lo domandi a lui (indicherà il marito) se non è vero! Lo faccia dire a lui!...Lei (indicherà la Figlia) non può saperne nulla.
La figliastra: So che con mio padre, finché visse, tu fosti sempre in pace e contenta. Negalo, se puoi!
La madre: Non lo nego, no...
La figliastra: Sempre pieno d'amore e di cure per te! (Al Giovinetto, con rabbia): Non è vero? Dillo! Perché non parli, sciocco?
La madre: Ma lascia questo povero ragazzo! Perché vuoi farmi credere un'ingrata, figlia? Io non voglio mica offendere tuo padre! Ho risposto a lui, che non per mia colpa né per mio piacere abbandonai la sua casa e mio figlio!
Il padre: È vero, signore. Fui io.

Pausa.

Il primo attore: (ai suoi compagni) Ma guarda che spettacolo!
La prima attrice: Ce lo danno loro, a noi!
L'attor giovane: Una volta tanto!
Il capocomico: (che comincerà a interessarsi vivamente) Stiamo a sentire! stiamo a sentire!

E così dicendo, scenderà per una delle scalette nella sala e resterà in piedi davanti al palcoscenico, come a cogliere, da spettatore, l'impressione della scena.

Il figlio: (senza muoversi dal suo posto, freddo, piano, ironico) Sì, stiano a sentire che squarcio di filosofia, adesso! Parlerà loro del Demone dell'Esperimento.
Il padre: Tu sei un cinico imbecille, e te l'ho detto cento volte! (Al Capocomico già nella sala): Mi deride, signore, per questa frase che ho trovato in mia scusa.
Il figlio: (sprezzante) Frasi.
Il padre: Frasi! Frasi! Come se non fosse il conforto di tutti, davanti a un fatto che non si spiega, davanti a un male che si consuma, trovare una parola che non dice nulla, e in cui ci si acquieta!
La figliastra: Anche il rimorso, già! sopra tutto.
Il padre: Il rimorso? Non è vero; non l'ho acquietato in me soltanto con le parole.
La figliastra: Anche con un po' di danaro, sì, sì, anche con un po' di danaro! Con le cento lire che stava per offrirmi in pagamento, signori!

Movimento d'orrore degli Attori.

Il figlio: (con disprezzo alla sorellastra) Questo è vile!
La figliastra: Vile? Erano là, in una busta cilestrina sul tavolino di mogano, là nel retrobottega di Madama Pace. Sa, signore? una di quelle Madame che con la scusa di vendere "Robes et Manteaux" attirano nei loro "ateliers" noi ragazze povere, di buona famiglia.
Il figlio: E s'è comperato il diritto di tiranneggiarci tutti, con quelle cento lire che lui stava per pagare, e che per fortuna non ebbe poi motivo - badi bene - di pagare.
La figliastra: Eh, ma siamo stati proprio lì lì, sai! (Scoppia a ridere).
La madre: (insorgendo) Vergogna, figlia! Vergogna!
La figliastra: (di scatto) Vergogna? È la mia vendetta! Sto fremendo, signore, fremendo di viverla, quella scena! La camera... qua la vetrina dei mantelli; là, il divano-letto; la specchiera; un paravento; e davanti la finestra, quel tavolino di mogano con la busta cilestrina delle cento lire. La vedo! Potrei prenderla! Ma lor signori si dovrebbero voltare: son quasi nuda! Non arrossisco più, perché arrossisce lui adesso! (Indicherà il padre). Ma vi assicuro ch'era molto pallido, molto pallido in quel momento! (Al Capocomico): Creda a me, signore!
Il capocomico: Io non mi raccapezzo più!
Il padre: Sfido! Assaltato così! Imponga un po' d'ordine, signore, e lasci che parli io, senza prestare ascolto all'obbrobrio, che con tanta ferocia costei le vuol dare a intendere di me, senza le debite spiegazioni.
La figliastra: Qui non si narra! qui non si narra!
Il padre: Ma io non narro! voglio spiegargli.
La figliastra: Ah, bello, sì! A modo tuo!

Il capocomico, a questo punto, risalirà sul palcoscenico per rimettere l'ordine.

Il padre: Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo d'intenderci; non c'intendiamo mai! Guardi la mia pietà, tutta la mia pietà per questa donna (indicherà la madre) è stata assunta da lei come la più feroce delle crudeltà.
La madre: Ma se m'hai scacciata!
Il padre: Ecco, la sente? Scacciata! Le è parso ch'io l'abbia scacciata!
La madre: Tu sai parlare; io non so...Ma creda, signore, che dopo avermi sposata... chi sa perché! (ero una povera, umile donna...)
Il padre: Ma appunto per questo, per la tua umiltà ti sposai, che amai in te, credendo... (S'interromperà alle negazioni di lei; aprirà le braccia, in atto disperato, vedendo l'impossibilità di farsi intendere da lei, e si rivolgerà al Capocomico): No, vede? Dice di no! Spaventevole, signore, creda, spaventevole, la sua (si picchierà sulla fronte) sordità, sordità mentale! Cuore, sì, per i figli! Ma sorda, sorda di cervello, sorda, signore, fino alla disperazione!
La figliastra: Sì, ma si faccia dire, ora, che fortuna è stata per noi la sua intelligenza.
Il padre: Se si potesse prevedere tutto il male che può nascere dal bene che crediamo di fare!

A questo punto la prima attrice, che si sarà macerata vedendo il primo attore civettare con la figliastra, si farà avanti e domanderà al Capocomico:

La prima attrice: Scusi, signor Direttore, seguiterà la prova?
Il capocomico: Ma sì! ma sì! Mi lasci sentire adesso!
L'attor giovane: È un caso così nuovo!
L'attrice giovane: Interessantissimo!
La prima attrice: Per chi se n'interessa! (E lancerà un'occhiata al Primo Attore).
Il capocomico: (al Padre) Ma bisogna che lei si spieghi chiaramente. (Si metterà a sedere).
Il padre: Ecco, sì. Veda, signore, c'era con me un pover'uomo, mio subalterno, mio segretario, pieno di devozione, che se la intendeva in tutto e per tutto con (indicherà la madre) senz'ombra di male - badiamo! - buono, umile come lei, incapace l'uno e l'altra, non che di farlo, ma neppure di pensarlo, il male!
La figliastra: Lo pensò lui, invece, per loro - e lo fece!
Il padre: Non è vero! Io intesi di fare il loro bene - e anche il mio, sì, lo confesso! Signore, ero arrivato al punto che non potevo dire una parola all'uno o all'altra, che subito non si scambiassero tra loro uno sguardo d'intelligenza; che l'una non cercasse subito gli occhi dell'altro per consigliarsi, come si dovesse prendere quella mia parola, per non farmi arrabbiare. Bastava questo, lei lo capisce, per tenermi in una rabbia continua, in uno stato di esasperazione intollerabile!
Il capocomico: E perché non lo cacciava via, scusi, quel suo segretario?
Il padre: Benissimo! Lo cacciai difatti, signore! Ma vidi allora questa povera donna restarmi per casa come sperduta, come una di quelle bestie senza padrone, che si raccolgono per carità.
La madre: Eh, sfido!
Il padre: (subito, voltandosi a lei, come per prevenire) figlio, è vero?
La madre: Mi aveva tolto prima dal petto il figlio, signore.
Il padre: Ma non per crudeltà! Per farlo crescere sano e robusto, a contatto della terra!
La figliastra: (additandolo, ironica) E si vede!
Il padre: (subito) Ah, è anche colpa mia, se poi è cresciuto così? Lo avevo dato a balia, signore, in campagna, a una contadina, non parendomi lei forte abbastanza, benché di umili natali. È stata la stessa ragione, per cui avevo sposato lei. Ubbie, forse; ma che ci vuol fare? Ho sempre avuto di queste maledette aspirazioni a una certa solida sanità morale! (la figliastra, a questo punto, scoppierà di nuovo a ridere fragorosamente). Ma la faccia smettere! È insopportabile!
Il capocomico: La smetta! Mi lasci sentire, santo Dio!

Subito, di nuovo, alla riprensione del Capocomico, ella resterà come assorta e lontana, con la risata a mezzo. Il capocomico ridiscenderà dal palcoscenico per cogliere l'impressione della scena.

Il padre: Io non potei più vedermi accanto questa donna. (lndicherà la madre). Ma non tanto, creda, per il fastidio, per l'afa - vera afa - che ne avevo io, quanto per la pena - una pena angosciosa - che provavo per lei.
La madre: E mi mandò via!
Il padre Ben provvista di tutto, a quell'uomo, sissignore, - per liberarla di me!
La madre: E liberarsi lui!
Il padre: Sissignore, anch'io - lo ammetto! E n'è seguito un gran male. Ma a fin di bene io lo feci... e più per lei che per me: lo giuro! (Incrocerà le braccia sul petto; poi, subito, rivolgendosi alla madre): Ti perdei mai d'occhio, dì, ti perdei mai d'occhio, finché colui non ti portò via, da un giorno all'altro, a mia insaputa, in un altro paese, scioccamente impressionato di quel mio interessamento puro, puro, signore, creda, senza il minimo secondo fine. M'interessai con una incredibile tenerezza della nuova famigliuola che le cresceva. Glielo può attestare anche lei! (Indicherà La figliastra).
La figliastra: Eh, altro! Piccina piccina, sa? con le treccine sulle spalle e le mutandine più lunghe della gonna - piccina così - me lo vedevo davanti al portone della scuola, quando ne uscivo. Veniva a vedermi come crescevo.
Il padre: Questo è perfido! Infame!
La figliastra: No, perché?
Il padre: Infame! Infame! (Subito, concitatamente, al Capocomico, in tono di spiegazione): La mia casa, signore, andata via lei, (indicherà La madre) mi parve subito vuota. Era il mio incubo; ma me la riempiva! Solo, mi ritrovai per le stanze come una mosca senza capo. Quello lì, (indicherà il Figlio) allevato fuori - non so - appena ritornato in casa, non mi parve più mio. Mancata tra me e lui la madre, è cresciuto per sé, a parte, senza nessuna relazione né affettiva né intellettuale con me. E allora (sarà strano, signore, ma è così), io fui incuriosito prima, poi man mano attratto verso la famigliuola di lei, sorta per opera mia: il pensiero di essa cominciò a riempire il vuoto che mi sentivo attorno. Avevo bisogno, proprio bisogno di crederla in pace, tutta intesa alle cure più semplici della vita, fortunata perché fuori e lontana dai complicati tormenti del mio spirito. E per averne una prova, andavo a vedere quella bambina all'uscita della scuola.
La figliastra: Già! Mi seguiva per via: mi sorrideva e, giunta a casa, mi salutava con la mano - così! Lo guardavo con tanto d'occhi, scontrosa. Non sapevo chi fosse! Lo dissi alla mamma. E lei dovette subito capire ch'era lui.
La madre: (farà cenno di sì col capo). Dapprima non volle mandarmi più a scuola, per parecchi giorni. Quando ci tornai, lo rividi all'uscita - buffo! - con un involtone di carta tra le mani. Mi s'avvicinò, mi carezzò; e trasse da quell'involto una bella, grande paglia di Firenze con una ghirlandina di roselline di maggio - per me!
Il capocomico: Ma tutto questo è racconto, signori miei!
Il figlio: (sprezzante) Ma sì, letteratura! letteratura!
Il padre: Ma che letteratura! Questa è vita, signore! Passione!
Il capocomico: Sarà! Ma irrappresentabile!
Il padre: D'accordo, signore! Perché tutto questo è antefatto. E io non dico di rappresentar questo. Come vede, infatti, lei (indicherà la figliastra) non è più quella ragazzetta con le treccine sulle spalle
La figliastra: e le mutandine fuori della gonna!
Il padre: Il dramma viene adesso, signore! Nuovo, complesso.
La figliastra: (cupa, fiera, facendosi avanti) Appena morto mio padre.
Il padre: (subito, per non darle tempo di parlare) ...la miseria, signore! Ritornano qua, a mia insaputa, per la stolidaggine di lei. (Indicherà la madre). Sa scrivere appena; ma poteva farmi scrivere dalla figlia, da quel ragazzo, che erano in bisogno!
La madre: Mi dica lei, signore, se potevo indovinare in lui tutto questo sentimento.
Il padre: Appunto questo è il tuo torto, di non aver mai indovinato nessuno dei miei sentimenti!
La madre: Dopo tanti anni di lontananza, e tutto ciò che era accaduto...
Il padre: E che è colpa mia, se quel brav'uomo vi portò via così? (Rivolgendosi al Capocomico): Le dico, da un giorno all'altro...perché aveva trovato fuori non so che collocamento. Non mi fu possibile rintracciarli; e allora per forza venne meno il mio interessamento, per tanti anni. Il dramma scoppia, signore, impreveduto e violento, al loro ritorno; allorché io, purtroppo, condotto dalla miseria della mia carne ancora viva...Ah, miseria, miseria veramente, per un uomo solo, che non abbia voluto legami avvilenti; non ancor tanto vecchio da poter fare a meno della donna, e non più tanto giovane da poter facilmente e senza vergogna andarne in cerca! Miseria? che dico! orrore, orrore: perché nessuna donna più gli può dare amore. - E quando si capisce questo, se ne dovrebbe fare a meno... Mah! Signore, ciascuno - fuori, davanti agli altri - è vestito di dignità: ma dentro di sè sa bene tutto ciò che nell'intimità con se stesso si passa, d'inconfessabile. Si cede, si cede alla tentazione; per rialzarcene subito dopo, magari, con una gran fretta di ricomporre intera e solida, come una pietra su una fossa, la nostra dignità, che nasconde e seppellisce ai nostri stessi occhi ogni segno e il ricordo stesso della vergogna. È così di tutti! Manca solo il coraggio di dirle, certe cose!
La figliastra: Perché quello di farle, poi, lo hanno tutti!
Il padre Tutti! Ma di nascosto! E perciò ci vuol più coraggio a dirle! Perché basta che uno le dica - è fatta! - gli s'appioppa la taccia di cinico. Mentre non è vero, signore: è come tutti gli altri; migliore, migliore anzi, perché non ha paura di scoprire col lume dell'intelligenza il rosso della vergogna, là, nella bestialità umana, che chiude sempre gli occhi per non vederlo. La donna - ecco - la donna, infatti, com'è? Ci guarda, aizzosa, invitante. La afferri! Appena stretta, chiude subito gli occhi. È il segno della sua dedizione. Il segno con cui dice all'uomo: "Accecati, io son cieca!".
La figliastra: E quando non li chiude più? Quando non sente più il bisogno di nascondere a se stessa, chiudendo gli occhi, il rosso della sua vergogna, e invece vede, con occhi ormai aridi e impassibili, quello dell'uomo, che pur senz'amore s'è accecato? Ah, che schifo, allora che schifo di tutte codeste complicazioni intellettuali, di tutta codesta filosofia che scopre la bestia e poi la vuol salvare, scusare...Non posso sentirlo, signore! Perché quando si è costretti a "semplificarla" la vita - così, bestialmente - buttando via tutto l'ingombro "umano" d'ogni casta aspirazione, d'ogni puro sentimento, idealità, doveri, il pudore, la vergogna, niente fa più sdegno e nausea di certi rimorsi: lagrime di coccodrillo!
Il capocomico: Veniamo al fatto, veniamo al fatto, signori miei! Queste son discussioni!
Il padre: Ecco, sissignore! Ma un fatto è come un sacco: vuoto, non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato. Io non potevo sapere che, morto là quell'uomo, e ritornati essi qua in miseria, per provvedere al sostentamento dei figliuoli, ella (indicherà la madre) si fosse data attorno a lavorare da sarta, e che giusto fosse andata a prender lavoro da quella... da quella Madama Pace!
La figliastra: Sarta fina, se lor signori lo vogliono sapere! Serve in apparenza le migliori signore, ma ha tutto disposto, poi, perché queste migliori signore servano viceversa a lei...senza pregiudizio delle altre così così!
La madre: Mi crederà, signore, se le dico che non mi passò neppur lontanamente per il capo il sospetto che quella megera mi dava lavoro perché aveva adocchiato mia figlia...
La figliastra: Povera mamma! Sa, signore, che cosa faceva quella lì, appena le riportavo il lavoro fatto da lei? Mi faceva notare la roba che aveva sciupata, dandola a cucire a mia madre; e diffalcava, diffalcava. Cosicché, lei capisce, pagavo io, mentre quella poverina credeva di sacrificarsi per me e per quei due, cucendo anche di notte la roba di Madama Pace!

Azione ed esclamazioni di sdegno degli Attori.

Il capocomico: (subito) E là, lei, un giorno, incontrò-
La figliastra (indicando il padre) - lui, lui, sissignore! vecchio cliente! Vedrà che scena da rappresentare! Superba!
Il padre: Col sopravvenire di lei, della madre
La figliastra: (subito, perfidamente) - quasi a tempo! -
Il padre: (gridando) - no, a tempo, a tempo! Perché, per fortuna, la riconosco a tempo! E me li riporto tutti a casa, signore! Lei s'immagini, ora, la situazione mia e la sua, una di fronte all'altro: ella, così come la vede; e io che non posso più alzarle gli occhi in faccia!
La figliastra: Buffissimo! Ma possibile, signore, pretendere da me - "dopo" - che me ne stessi come una signorinetta modesta, bene allevata e virtuosa, d'accordo con le sue maledette aspirazioni "a una solida sanità morale"?
Il padre: Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi - veda - si crede "uno" ma non è vero: è "tanti", signore, "tanti", secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi: "uno" con questo, "uno" con quello - diversissimi! E con l'illusione, intanto, d'esser sempre "uno per tutti", e sempre "quest'uno" che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce n'accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all'improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell'atto, e che dunque una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per una intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell'atto! Ora lei intende la perfidia di questa ragazza? M'ha sorpreso in un luogo, in un atto, dove e come non doveva conoscermi, come io non potevo essere per lei; e mi vuol dare una realtà, quale io non potevo mai aspettarmi che dovessi assumere per lei, in un momento fugace, vergognoso, della mia vita! Questo, questo, signore, io sento sopratutto. E vedrà che da questo il dramma acquisterà un grandissimo valore. Ma c'è poi la situazione degli altri! Quella sua.. . (indicherà il Figlio).

Il figlio: (scrollandosi sdegnosamente) Ma lascia star me, ché io non c'entro!
Il padre: Come non c'entri?
Il figlio: Non c'entro, e non voglio entrarci, perché sai bene che non son fatto per figurare qua in mezzo a voi!
La figliastra: Gente volgare, noi! - Lui, fino! - Ma lei può vedere, signore, che tante volte io lo guardo per inchiodarlo col mio disprezzo, e tante volte egli abbassa gli occhi - perché sa il male che m'ha fatto.
Il figlio (guardandola appena) Io?
La figliastra: Tu! tu! Lo devo a te, caro, il marciapiedi! a te! (Azione d'orrore degli Attori). Vietasti, sì o no, col tuo contegno - non dico l'intimità della casa - ma quella carità che leva d'impaccio gli ospiti? Fummo gli intrusi, che venivamo a invadere il regno della tua "legittimità"! Signore, vorrei farlo assistere a certe scenette a quattr'occhi tra me e lui! Dice che ho tiranneggiato tutti. Ma vede? E stato proprio per codesto suo contegno, se mi sono avvalsa di quella ragione ch'egli chiama "vile"; la ragione per cui entrai nella casa di lui con mia madre - che è anche sua madre - da padrona!
Il figlio: (facendosi avanti lentamente) Hanno tutti buon giuoco, signore, una parte facile tutti contro di me. Ma lei s'immagini un figlio, a cui un bel giorno, mentre se ne sta tranquillo a casa, tocchi di veder arrivare, tutta spavalda, così, "con gli occhi alti", una signorina che gli chiede del padre, a cui ha da dire non so che cosa; e poi la vede ritornare, sempre con la stess'aria, accompagnata da quella piccolina là; e infine trattare il padre - chi sa perché - in modo molto ambiguo e "sbrigativo" chiedendo danaro, con un tono che lascia supporre che lui deve, deve darlo, perché ha tutto l'obbligo di darlo -
Il padre: - ma l'ho difatti davvero, quest'obbligo: è per tua madre!
Il figlio: E che ne so io? Quando mai l'ho veduta io, signore? Quando mai ne ho sentito parlare? Me la vedo comparire, un giorno, con lei, (indicherà la figliastra) con quel ragazzo, con quella bambina, mi dicono: "Oh sai? è anche tua madre!". Riesco a intravedere dai suoi modi (indicherà di nuovo la figliastra) per qual motivo, così da un giorno all'altro, sono entrati in casa... Signore, quello che io provo, quello che sento, non posso e non voglio esprimerlo. Potrei al massimo confidarlo, e non vorrei neanche a me stesso. Non può dunque dar luogo, come vede, a nessuna azione da parte mia. Creda, creda, signore, che io sono un personaggio non "realizzato" drammaticamente; e che sto male, malissimo, in loro compagnia! - Mi lascino stare!
Il padre: Ma come? Scusa! Se proprio perché tu sei così -
Il figlio: (con esasperazione violenta) - e che ne sai tu, come sono? quando mai ti sei curato di me?
Il padre: Ammesso! Ammesso! E non è una situazione anche questa? Questo tuo appartarti, così crudele per me, per tua madre che, rientrata in casa, ti vede quasi per la prima volta, così grande, e non ti conosce, ma sa che tu sei suo figlio... (Additando la madre al Capocomico) Eccola, guardi: piange!
La figliastra: (con rabbia, pestando un piede) Come una stupida!
Il padre: (subito additando anche lei al Capocomico) E lei non può soffrirlo, si sa! (Tornando a riferirsi al Figlio): - Dice che non c'entra, mentre è lui quasi il pernio dell'azione! Guardi quel ragazzo, che se ne sta sempre presso la madre, sbigottito, umiliato...È così per causa di lui! Forse la situazione più penosa è la sua: si sente estraneo, più di tutti; e prova, poverino, una mortificazione angosciosa di essere accolto in casa - cosi per carità... (In confidenza): Somiglia tutto al padre! Umile; non parla...
Il capocomico: Eh, ma non è mica bello! Lei non sa che impaccio danno i ragazzi sulla scena.
Il padre: Oh, ma lui glielo leva subito, l'impaccio, sa! E anche quella bambina, che è anzi la prima ad andarsene...
Il capocomico: Benissimo, sì! E le assicuro che tutto questo m'interessa, m'interessa vivamente. Intuisco, intuisco che c'è materia da cavarne un bel dramma!
La figliastra: (tentando d'intromettersi) Con un personaggio come me!
Il padre: (scacciandola, tutto in ansia come sarà, per la decisione del Capocomico) Stai zitta, tu!
Il capocomico: (seguitando senza badare all'interruzione) Nuova, sì...
Il padre: Eh, novissima, signore!
Il capocomico: Ci vuole un bel coraggio però - dico - venire a buttarmelo davanti così.. .
Il padre: Capirà, signore: nati, come siamo, per la scena...
Il capocomico: Sono comici dilettanti?
Il padre: No: dico nati per la scena, perché...
Il capocomico: Eh via, lei deve aver recitato!
Il padre: Ma no, signore: quel tanto che ciascuno recita nella parte che si è assegnata, o che gli altri gli hanno assegnato nella vita. E in me, poi, è la passione stessa, veda, che diventa sempre, da sè, appena si esalti - come in tutti - un po' teatrale...
Il capocomico: Lasciamo andare, lasciamo andare! - Capirà, caro signore, che senza l'autore... - Io potrei indirizzarla a qualcuno...
Il padre: Ma no, guardi: sia lei!
Il capocomico: Io? Ma che dice?
Il padre: Sì, lei! lei! Perché no?
Il capocomico: Perché non ho mai fatto l'autore, io!
Il padre: E non potrebbe farlo adesso, scusi? Non ci vuol niente. Lo fanno tanti! Il suo compito è facilitato dal fatto che siamo qua, tutti, vivi davanti a lei.
Il capocomico: Ma non basta!
Il padre: Come non basta? Vedendoci vivere il nostro dramma...
Il capocomico: Già! Ma ci vorrà sempre qualcuno che lo scriva!
Il padre: No - che lo trascriva, se mai, avendolo così davanti - in azione - scena per scena. Basterà stendere in prima, appena appena, una traccia - e provare!
Il capocomico: (risalendo, tentato, sul palcoscenico) : Eh...quasi quasi, mi tenta...Così, per un giuoco...Si potrebbe veramente provare...
Il padre: Ma sì, signore! Vedrà che scene verranno fuori! Gliele posso segnar subito io!
Il capocomico: Mi tenta... mi tenta. Proviamo un po'... Venga qua con me nel mio camerino. (Rivolgendosi agli Attori): - Loro restano per un momento in libertà; ma non s'allontanino di molto. Fra un quarto d'ora, venti minuti, siano di nuovo qua. (Al Padre): Vediamo, tentiamo...Forse potrà venir fuori veramente qualcosa di straordinario...
Il padre: Ma senza dubbio! Sarà meglio, non crede? far venire anche loro.

Indicherà gli altri Personaggi.

Il capocomico: Sì, vengano, vengano! (S'avvierà; ma poi tornando a volgersi agli Attori): - Mi raccomando, eh! puntuali! Fra un quarto d'ora.

Il capocomico e i Sei Personaggi attraverseranno il palcoscenico e scompariranno. Gli Attori resteranno, come storditi, a guardarsi tra loro.

Il primo attore: Ma dice sul serio? Che vuol fare?
L'attor giovane: Questa è pazzia bell'e buona!
Un terzo attore: Ci vuol fare improvvisare un dramma, così su due piedi?
L'attor giovane: Già! Come i Comici dell'Arte!
La prima attrice: Ah, se crede che io debba prestami a simili scherzi...
L'attrice giovane: Ma non ci sto neanch'io!
Un quarto attore: Vorrei sapere chi sono quei là. (Alluderà ai Personaggi).
Il terzo attore: Che vuoi che siano! Pazzi o imbroglioni!
L'attor giovane: E lui si presta a dar loro ascolto?
L'attrice giovane: La vanità! La vanità di figurare da autore...
Il primo attore: Ma cose inaudite! Se il teatro, signori miei, deve ridursi a questo...
Un quinto attore: Io mi ci diverto!
Il terzo attore: Mah! Dopo tutto, stiamo a vedere che cosa ne nasce.

E così conversando tra loro, gli Attori sgombreranno il palcoscenico, parte escendo dalla porticina in fondo, parte rientrando nei loro camerini.

Il sipario resterà alzato.

La rappresentazione sarà interrotta per una ventina di minuti.




* * *

I campanelli del teatro avviseranno che la rappresentazione ricomincia.
Dai camerini, dalla porta e anche dalla sala ritorneranno sul palcoscenico gli Attori, il direttore di scena, il Macchinista, il suggeritore, il Trovarobe e, contemporaneamente, dal suo camerino il direttore-Capocomico coi Sei Personaggi.
Spenti i lumi della sala, si rifarà sul palcoscenico la luce di prima.

Il capocomico: Su, su, signori! Ci siamo tutti? Attenzione, attenzione. Si comincia! - Macchinista!
Il macchinista: Eccomi qua!
Il capocomico: Disponga subito la scena della saletta. Basteranno due fiancate e un fondalino con la porta. Subito, mi raccomando!

Il Macchinista correrà subito ad eseguire, e mentre il capocomico s'intenderà col Direttore di scena, col Trovarobe, col Suggeritore e con gli Attori intorno alla rappresentazione imminente, disporrà quel simulacro di scena indicata: due fiancate e un fondalino con la porta, a strisce rosa e oro.

Il capocomico: (al Trovarobe) Lei veda un po' se c'è in magazzino un letto a sedere.
Il trovarobe: Sissignore, c'è quello verde.
La figliastra: No no, che verde! Era giallo, fiorato, di "peluche", molto grande! - Comodissimo.
Il trovarobe: Eh, così non c'è.
Il capocomico: Ma non importa! Metta quello che c'è.
La figliastra: Come non importa? La greppina famosa di Madama Pace!
Il capocomico: Adesso è per provare! La prego, non s'immischi! (Al Direttore di scena): Guardi se c'è una vetrina piuttosto lunga e bassa.
La figliastra: Il tavolino, il tavolino di mogano per la busta cilestrina!
Il direttore di scena: (al Capocomico). C'è quello piccolo, dorato.
Il capocomico: Va bene, prenda quello!
Il padre: Una specchiera.
La figliastra: E il paravento! Un paravento, mi raccomando: se no, come faccio?
Il direttore di scena: Sissignora, paraventi ne abbiamo tanti, non dubiti.
Il capocomico: (alla figliastra) Poi qualche attaccapanni, è vero?
La figliastra: Sì, molti, molti!
Il capocomico: (al Direttore di scena) Veda quanti ce n'è, e li faccia portare.
Il direttore di scena: Sissignore, penso io!

Il direttore di scena correrà anche lui a eseguire: e, mentre il capocomico seguiterà a parlare col Suggeritore e poi coi Personaggi e gli Attori, farà trasportare i mobili indicati dai Servi di scena e li disporrà come crederà più opportuno.

Il capocomico: (al Suggeritore) Lei, intanto, prenda posto. Guardi: questa è la traccia delle scene, atto per atto. (Gli porgerà alcuni fogli di carta). Ma bisogna che ora lei faccia una bravura.
Il segretario: Stenografare?
Il capocomico: (con lieta sorpresa) Ah, benissimo! Conosce la stenografia?
Il segretario: Non saprò suggerire; ma la stenografia...
Il capocomico: Ma allora di bene in meglio! (Rivolgendosi a un Servo di scena): Vada a prendere la carta nel mio camerino. - molta, molta - quanta ne trova!

Il Servo di scena correrà, e ritornerà poco dopo con un bel fascio di carta, che porgerà al Suggeritore.

Il capocomico: (seguitando, al Suggeritore) Segua le scene, man mano che saranno rappresentate, e cerchi di fissare le battute, almeno le più importanti! (Poi, rivolgendosi agli Attori): Sgombrino, signori! Ecco, si mettano da questa parte (indicherà la sinistra) e stiano bene attenti!
La prima attrice: Ma, scusi, noi...
Il capocomico: (prevenendola) Non ci sarà da improvvisare, stia tranquilla!
Il primo attore: E che dobbiamo fare?
Il capocomico: Niente! Stare a sentire e guardare per ora! Avrà ciascuno, poi, la sua parte scritta. Ora si farà così alla meglio, una prova! La faranno loro!

Indicherà i Personaggi.

Il padre: (come cascato dalle nuvole, in mezzo alla confusione del palcoscenico) Noi? Come sarebbe a dire, scusi, una prova?
Il capocomico: Una prova - una prova per loro!

Indicherà gli Attori.

Il padre: Ma se i personaggi siamo noi...
Il capocomico: E va bene: "i personaggi"; ma qua, caro signore, non recitano i personaggi. Qua recitano gli attori. I personaggi stanno lì nel copione (indicherà la buca del Suggeritore) - quando c'è un copione!
Il padre: Appunto! Poiché non c'è e lor signori hanno la fortuna d'averli qua vivi davanti, i personaggi...
Il capocomico: Oh bella! Vorrebbero far tutto da sè? recitare, presentarsi loro davanti al pubblico?
Il padre: Eh già, per come siamo.
Il capocomico: Ah, le assicuro che offrirebbero un bellissimo spettacolo!
Il primo attore: E che ci staremmo a fare nojaltri, qua, allora?
Il capocomico: Non s'immagineranno mica di saper recitare loro! Fanno ridere... (Gli Attori, difatti, rideranno). Ecco, vede, ridono! (Sovvenendosi): Ma già, a proposito! Bisognerà assegnar le parti. Oh, è facile: sono già di per sè assegnate: (alla Seconda Donna): lei signora, la madre. (Al Padre) Bisognerà trovarle un nome.
Il padre: Amalia, signore
Il capocomico: Ma questo è il nome della sua signora. Non vorremo mica chiamarla col suo vero nome!
Il padre: E perché no, scusi? se si chiama così...Ma già, se dev'essere la signora... (Accennerà appena con la mano alla Seconda Donna). Io vedo questa (accennerà alla madre) come Amalia, signore. Ma faccia lei... (Si smarrirà sempre più). Non so più che dirle...Comincio già... non so, a sentir come false, con un altro suono, le mie stesse parole.
Il capocomico: Ma non se ne curi, non se ne curi, quanto a questo! Penseremo noi a trovare il tono giusto! E per il nome, se lei vuole "Amalia", sarà Amalia; o ne troveremo un altro. Per adesso designeremo i personaggi così: (all'Attor Giovane): lei "Il Figlio", (alLa prima attrice): lei, signorina, s'intende, "La figliastra".
La figliastra: (esilarata) Come come? Io, quella lì? (Scoppierà a ridere).
Il capocomico: (irato) Che cos'ha da ridere?
La prima attrice: (indignata) Nessuno ha mai osato ridersi di me! Pretendo che mi si rispetti, o me ne vado!
La figliastra: Ma no, scusi, io non rido di lei.
Il capocomico: (alla figliastra) Dovrebbe sentirsi onorata d'esser rappresentata da...
La prima attrice: (subito, con sdegno) "quella lì!"
La figliastra: Ma non dicevo per lei, creda! dicevo per me, che non mi vedo affatto in lei, ecco. Non so, non...non m'assomiglia per nulla!
Il padre: Già, è questo; veda, signore! La nostra espressione -
Il capocomico: - ma che loro espressione! Credono d'averla in sè, loro, l'espressione? Nient'affatto!
Il padre: Come! Non abbiamo la nostra espressione?
Il capocomico: Nient'affatto! La loro espressione diventa materia qua, a cui dan corpo e figura, voce e gesto gli attori, i quali - per sua norma - han saputo dare espressione a ben più alta materia: dove la loro è così piccola, che se si reggerà sulla scena, il merito, creda pure, sarà tutto dei miei attori.
Il padre: Non oso contraddirla, signore. Ma creda che è una sofferenza orribile per noi che siamo così come ci vede, con questo corpo, con questa figura -
Il capocomico: (troncando, spazientito) - ma si rimedia col trucco, si rimedia col trucco, caro signore, per ciò che riguarda la figura!
Il padre: Già; ma la voce, il gesto -
Il capocomico: - oh, insomma! Qua lei, come lei, non può essere! Qua c'è l'attore che lo rappresenta; e basta!
Il padre: Ho capito, signore. Ma ora forse indovino anche perché il nostro autore, che ci vide vivi così, non volle poi comporci per la scena. Non voglio fare offesa ai suoi attori. Dio me ne guardi! Ma penso che a vedermi adesso rappresentato... non so da chi...
Il primo attore:con alterigia alzandosi e venendogli incontro, seguito dalle gaje giovani Attrici che rideranno). Da me, se non le dispiace.
Il padre: (umile e mellifluo). Onoratissimo, signore. (S'inchinerà). Ecco, penso che, per quanto il signore s'adoperi con tutta la sua volontà e tutta la sua arte ad accogliermi in sè... (Si smarrirà).
Il primo attore: Concluda, concluda.

Risata delle Attrici.

Il padre: Eh, dico, la rappresentazione che farà - anche forzandosi col trucco a somigliarmi... - dico, con quella statura... (tutti gli Attori rideranno) difficilmente potrà essere una rappresentazione di me, com'io realmente sono. Sarà piuttosto - a parte la figura - sarà piuttosto com'egli interpreterà ch'io sia, com'egli mi sentirà - se mi sentirà - e non com'io dentro di me mi sento. E mi pare che di questo, chi sia chiamato a giudicare di noi, dovrebbe tener conto.
Il capocomico: Si dà pensiero dei giudizi della critica adesso? E io che stavo ancora a sentire! Ma lasci che dica, la critica. E noi pensiamo piuttosto a metter su la commedia, se ci riesce! (Staccandosi e guardando in giro): Su, su! È già disposta la scena? (Agli Attori e ai Personaggi): Si levino, si levino d'attorno! Mi lascino vedere. (Discenderà dal palcoscenico). Non perdiamo altro tempo! (Alla figliastra): Le pare che la scena stia bene così?
La figliastra: Mah! io veramente non mi ci ritrovo.
Il capocomico: E dàlli! Non pretenderà che le si edifichi qua, tal quale, quel retrobottega che lei conosce, di Madama Pace! (Al Padre): M'ha detto una saletta a fiorami?
Il padre: Sissignore. Bianca.
Il capocomico: Non è bianca; è a strisce; ma poco importa! Per i mobili, su per giù, mi pare che ci siamo! Quel tavolinetto, lo portino un po' più qua davanti! (I Servi di scena eseguiranno). (Al Trovarobe): Lei provveda intanto una busta, possibilmente cilestrina, e la dia al signore. (Indicherà il padre).
Il trovarobe: Da lettere?
Il capocomico: e Il padre: Da lettere, da lettere.
Il trovarobe: Subito! (Escirà).
Il capocomico: Su, su! La prima scena è della Signorina. (La prima attrice si farà avanti). Ma no, aspetti, lei! dicevo alla Signorina. (Indicherà la figliastra). Lei starà a vedere -
La figliastra: (subito aggiungendo) - come la vivo!
La prima attrice: (risentita) Ma saprò viverla anch'io, non dubiti, appena mi ci metto!
Il capocomico: (con le mani alla testa) Signori miei, non facciamo altre chiacchiere! Dunque, la prima scena è della Signorina con Madama Pace. Oh, (si smarrirà, guardandosi attorno e risalirà sul palcoscenico) e questa Madama Pace?
Il padre: Non è con noi, signore.
Il capocomico: E come si fa?
Il padre: Ma è viva, viva anche lei!
Il capocomico: Già! Ma dov'è?
Il padre: Ecco, mi lasci dire. (Rivolgendosi alle Attrici): Se loro signore mi volessero far la grazia di darmi per un momento i loro cappellini.
Le attrici: (un po' sorprese, un po' ridendo, a coro)
- Che?
- I cappellini?
- Che dice?
- Perché?
- Ah, guarda!
Il capocomico: Che vuol fare coi cappellini delle signore?

Gli Attori rideranno.

Il padre: Oh nulla, posarli per un momento su questi attaccapanni. E qualcuna dovrebbe essere così gentile di levarsi anche il mantello.
Gli attori: (c.s.)
- Anche il mantello?
- E poi?
- Dev'esser matto!
Qualche attrice: (c.s.)
- Ma perché?
- Il mantello soltanto?
Il padre: Per appenderli, un momentino...Mi facciano questa grazia. Vogliono?
Le attrici: (levandosi i cappellini e qualcuna anche il mantello, seguiteranno a ridere, ed andando ad appenderli qua e là agli attaccapanni).
- E perché no?
- Ecco qua!
- Ma badate che è buffo sul serio!
- Dobbiamo metterli in mostra?
Il padre: Ecco, appunto, sissignora: così in mostra!
Il capocomico: Ma si può sapere per che farne?
Il padre: Ecco, signore: forse, preparandole meglio la scena, attratta dagli oggetti stessi del suo commercio, chi sa che non venga tra noi... (Invitando a guardare verso l'uscio in fondo della scena): Guardino! guardino!

L'uscio in fondo s'aprirà e verrà avanti di pochi passi Madama Pace, megera d'enorme grassezza, con una pomposa parrucca di lana color carota e una rosa fiammante da un lato, alla spagnola; tutta ritinta, vestita con goffa eleganza di seta rossa sgargiante, un ventaglio di piume in una mano e l'altra mano levata a sorreggere tra due dita la sigaretta accesa. Subito, all'apparizione, gli Attori e il capocomico schizzeranno via dal palcoscenico con un urlo di spavento, precipitandosi alla scaletta e accenneranno di fuggire per il corridojo. La figliastra, invece, accorrerà a Madama Pace, umile, come davanti a una padrona.>

La figliastra: (accorrendo) Eccola! Eccola!
Il padre: (raggiante)È lei! Lo dicevo io? Eccola qua!
Il capocomico: (vincendo il primo stupore, indignato) Ma che trucchi son questi?
Il primo attore: (quasi contemporaneamente) Ma dove siamo, insomma?
L'attor giovane: (c.s.) Di dove è comparsa quella lì?
L'attrice giovane: (c.s.) La tenevano in serbo!
La prima attrice (c.s.) Questo è un giuoco di bussolotti!
Il padre: (dominando le proteste) Ma scusino! Perché vogliono guastare, in nome d'una verità volgare, di fatto, questo prodigio di una realtà che nasce, evocata, attratta, formata dalla stessa scena, e che ha più diritto di viver qui, che loro; perché assai più vera di loro? Quale attrice fra loro rifarà poi Madama Pace? Ebbene: Madama Pace è quella! Mi concederanno che l'attrice che la rifarà, sarà meno vera di quella - che è lei in persona! Guardino: mia figlia l'ha riconosciuta e le si è subito accostata! Stiano a vedere, stiano a vedere la scena!

Titubanti, il capocomico e gli Attori risaliranno sul palcoscenico.

Ma già la scena tra la figliastra e Madama Pace, durante la protesta degli Attori e la risposta del Padre, sarà cominciata, sottovoce, pianissimo, insomma naturalmente, come non sarebbe possibile farla avvenire su un palcoscenico. Cosicché, quando gli Attori, richiamati dal Padre all'attenzione, si volteranno a guardare, e vedranno Madama Pace che avrà già messo una mano sotto il mento alla figliastra per farle sollevare il capo, sentendola parlare in un modo affatto inintelligibile, resteranno per un momento intenti; poi, subito dopo, delusi.

Il capocomico: Ebbene?
Il primo attore: Ma che dice?
La prima attrice: Così non si sente nulla!
L'attor giovane: Forte! forte!
La figliastra: (lasciando Madama Pace che sorriderà di un impagabile sorriso, e facendosi avanti al crocchio degli Attori). "Forte", già! Che forte? Non son mica cose che si possano dir forte! Le ho potute dir forte io per la sua vergogna, (indicherà il padre) che è la mia vendetta! Ma per Madama è un'altra cosa, signori: c'è la galera!
Il capocomico: Oh bella! Ah, è così? Ma qui bisogna che si facciano sentire, cara lei! Non sentiamo nemmeno noi, sul palcoscenico! Figurarsi quando ci sarà il pubblico in teatro! Bisogna far la scena. E del resto possono ben parlar forte tra loro, perché noi non saremo mica qua, come adesso, a sentire: loro fingono d'esser sole, in una stanza, nel retrobottega, che nessuno le sente.

La figliastra, graziosamente, sorridendo maliziosa, farà più volte cenno di no, col dito.

Il capocomico: Come no?
La figliastra: (sottovoce, misteriosamente). C'è qualcuno che ci sente, signore, se lei (indicherà Madama Pace) parla forte!
Il capocomico: (costernatissimo) Deve forse scappar fuori qualche altro?

Gli Attori accenneranno di scappar di nuovo dal Palcoscenico.

Il padre: No, no, signore. Allude a me. Ci debbo esser io, là dietro quell'uscio, in attesa; e Madama lo sa. Anzi, mi permettano! Vado per esser subito pronto. (Farà per avviarsi).
Il capocomico: (fermandolo) Ma no, aspetti! Qua bisogna rispettare le esigenze del teatro! Prima che lei sia pronto...
La figliastra: (interrompendolo) Ma sì, subito! subito! Mi muojo, le dico, dalla smania di viverla, di vederla questa scena! Se lui vuol esser subito pronto, io sono prontissima!
Il capocomico: (gridando) Ma bisogna che prima venga fuori, ben chiara, la scena tra lei e quella lì. (Indicherà Madama Pace). Lo vuol capire?
La figliastra: Oh Dio mio, signore: m'ha detto quel che lei già sa: che il lavoro della mamma ancora una volta è fatto male, la roba è sciupata; e che bisogna ch'io abbia pazienza, se voglio che ella seguiti ad ajutarci nella nostra miseria.
Madama Pace: (facendosi avanti, con una grand'aria di importanza). Eh ciò, señor; porqué yò nó quero aproveciarme...avantaciarme...
Il capocomico: (quasi atterrito) Come come? Parla così!

Tutti gli Attori scoppieranno a ridere fragorosamente.

La figliastra: (ridendo anche lei) Sì, signore, parla così, mezzo spagnolo e mezzo italiano, in un modo buffissimo!
Madama Pace: Ah, no me par bona crianza che loro ridano de mi, si yò me sfuerzo de hablar, como podo, italiano, señor!
Il capocomico: Ma no! Ma anzi! Parli così! parli così, signora! Effetto sicuro! Non si può dar di meglio anzi, per rompere un po' comicamente la crudezza della situazione. Parli, parli così! Va benissimo!
La figliastra: Benissimo! Come no? Sentirsi fare con un tal linguaggio certe proposte: effetto sicuro, perché par quasi una burla, signore! Ci si mette a ridere a sentirsi dire che c'è un "vièchio señor" che vuole "amusarse con migo" - non è vero, Madama?
Madama Pace: Viejito, ciò! Viejito, linda; ma mejor para ti: ch'i se no te dò gusto, te porta prudencia!
La madre: (insorgendo, tra lo stupore e la costernazione di tutti gli Attori, che non badavano a lei, e che ora balzeranno al grido a trattenerla ridendo, poiché essa avrà intanto strappato a Madama Pace la parrucca e l'avrà buttata a terra). Strega! strega! assassina! La figlia mia!
La figliastra: (accorrendo a trattenere la madre) No, no, mamma, no! per carità!
Il padre: (accorrendo anche lui, contemporaneamente) Stà buona, stà buona! A sedere!
La madre: Ma levatemela davanti, allora!
La figliastra: (al Capocomico accorso anche lui) Non è possibile, non è possibile che la mamma stia qui!
Il padre: (anche lui al Capocomico) Non possono stare insieme! È per questo, vede, quella lì, quando siamo venuti, non era con noi! Stando insieme, capirà, per forza s'anticipa tutto.
Il capocomico: Non importa! Non importa! È per ora come un primo abbozzo! Serve tutto, perché io colga anche così, confusamente, i vari elementi. (Rivolgendosi alla madre e conducendola per farla sedere di nuovo al suo posto): Via, via, signora, sia buona, sia buona: si rimetta a sedere!

Intanto la figliastra, andando di nuovo in mezzo alla scena, si rivolgerà a Madama Pace:

La figliastra: Su, su, dunque, Madama.
Madama Pace: (offesa) Ah no, gracie tante! Yò aquy no fado più nada con tua madre presente.
La figliastra: Ma via, faccia entrate questo "vièchio señor porqué‚ se amusi con migo!". (Voltandosi a tutti imperiosa): Insomma, bisogna farla, questa scena! - Su, avanti! (A Madama Pace): Lei se ne vada!
Madama Pace: Ah, me voj, me voj - me voj seguramente...

Escirà furiosa raccattando la parrucca e guardando fieramente gli Attori che applaudiranno sghignazzando.

La figliastra: (al Padre) E lei faccia l'entrata! Non c'è bisogno che giri! Venga qua! Finga d'essere entrato! Ecco: io me e sto qua a testa bassa - modesta! - E su! Metta fuori la voce! Mi dica con voce nuova, come uno che venga da fuori: "Buon giorno, signorina".
Il capocomico: (sceso già dal palcoscenico). Oh guarda! Ma insomma, dirige lei o dirigo io? (Al Padre che guarderà sospeso e perplesso): Eseguisca, sì: vada là in fondo, senza uscire, e rivenga avanti.

Il padre eseguirà quasi sbigottito. Pallidissimo; ma già investito nella realtà della sua vita creata, sorriderà appressandosi dal fondo, come alieno del dramma che sarà per abbattersi su di lui. Gli Attori si faran subito intenti alla scena che comincia.

Il capocomico: (piano, in fretta, al Suggeritore nella buca). E lei, attento, attento a scrivere, adesso!

La scena

Il padre: (avanzando con voce nuova) Buon giorno, signorina.
La figliastra: (a capo chino, con contenuto ribrezzo) Buon giorno.
Il padre: (la spierà un po', di sotto al cappellino che quasi le nasconde il viso, e scorgendo ch'ella è giovanissima, esclamerà quasi fra sè, un po' per compiacenza, un po' anche per timore di compromettersi in un'avventura rischiosa). Ah... - Ma... dico, non sarà la prima volta, è vero? che lei viene qua.
La figliastra: (c.s.) No, signore.
Il padre: C'è venuta qualche altra volta? (E poiché la figliastra fa cenno di sì col capo): Più d'una? (Aspetterà un po' la risposta; tornerà a spiarla di sotto al cappellino: sorriderà; poi dirà): E dunque, via... non dovrebbe più essere così...Permette che le levi io codesto cappellino?
La figliastra: (subito, per prevenirlo, ma contenendo il ribrezzo) No, signore: me lo levo da me! (Eseguirà in fretta, convulsa).

La madre, assistendo alla scena, col Figlio e con gli altri due piccoli e più suoi, i quali se ne staranno sempre accanto a lei, appartati nel lato opposto a quello degli Attori, sarà come sulle spine, e seguirà con varia espressione, di dolore, di sdegno, d'ansia, d'orrore, le parole e gli atti di quei due; e ora si nasconderà il volto, ora metterà qualche gemito.

La madre: Oh Dio! Dio mio!
Il padre: (resterà, al gemito, come impietrato per un lungo momento; poi riprenderà col tono di prima) Ecco, mi dia: lo poso io. (Le toglierà dalle mani il cappellino). Ma su una bella, cara testolina come la sua, vorrei che figurasse un più degno cappellino. Vorrà ajutarmi a sceglierne qualcuno, poi, qua tra questi di Madama? - No?
L'attrice giovane: (interrompendolo) Oh, badiamo bene! Quelli là sono i nostri cappelli!
Il capocomico: (subito, arrabbiatissimo) Silenzio, perdio! Non faccia la spiritosa! - Questa è la scena! (Rivolgendosi alla figliastra): Riattacchi, prego, signorina!
La figliastra: (riattaccando) No, grazie, signore.
Il padre: Eh via, non mi dica di no! Vorrà accettarmelo. Me n'avrei a male... Ce n'è di belli, guardi! E poi faremmo contenta Madama. Li mette apposta qua in mostra!
La figliastra: Ma no, signore, guardi: non potrei neanche portarlo.
Il padre: Dice forse per ciò che ne penserebbero a casa, vedendola rientrare con un cappellino nuovo? Eh via! Sa come si fa? Come si dice a casa?
La figliastra: (smaniosa, non potendone più) Ma non per questo, signore! Non potrei portarlo, perché sono...come mi vede: avrebbe già potuto accorgersene! (Mostrerà l'abito nero).
Il padre: A lutto, già! È vero: vedo. Le chiedo perdono. Creda che sono veramente mortificato.
La figliastra: (facendosi forza e pigliando ardire anche per vincere la nausea). Basta, basta, signore! Tocca a me ringraziarla, e non a lei di mortificarsi o d'affliggersi. Non badi più, la prego, a quel che le ho detto. Anche per me, capirà... (Si sforzerà di sorridere e aggiungerà): Bisogna proprio ch'io non pensi, che sono vestita così.
Il capocomico: (interrompendo, rivolto al Suggeritore nella buca e risalendo sul palcoscenico). Aspetti, aspetti! Non scriva, tralasci, tralasci quest'ultima battuta ! (Rivolgendosi al Padre e alla figliastra): Va benissimo! Va benissimo! (Poi al Padre soltanto): Qua lei attaccherà com'abbiamo stabilito! (Agli Attori): Graziosissima questa scenetta del cappellino, non vi pare?
La figliastra: Eh, ma il meglio viene adesso! perché non si prosegue?
Il capocomico: Abbia pazienza un momento! (Tornando a rivolgersi agli Attori): Va trattata, naturalmente, con un po' di leggerezza -
Il primo attore : - di spigliatezza, già -
La prima attrice: Ma sì, non ci vuol niente! (Al Primo Attore): Possiamo subito provarla, no?
Il primo attore: Oh, per me... Ecco, giro per far l'entrata!

Escirà, per esser pronto a rientrare dalla porta del fondalino.

Il capocomico: (alla prima attrice) E allora, dunque, guardi, è finita la scena tra lei e quella Madama Pace, che penserò poi io a scrivere. Lei se ne sta...No, dove va?
La prima attrice: Aspetti, mi rimetto il cappello...

Eseguirà, andando a prendere il suo cappello dall'attaccapanni.

Il capocomico: Ah già, benissimo! Dunque, lei resta qui a capo chino.
La figliastra: (divertita) Ma se non è vestita di nero!
La prima attrice: Sarò vestita di nero, e molto più propriamente di lei!
Il capocomico: (alla figliastra) Stia zitta, la prego! E stia a vedere! Avrà da imparare! (Battendo le mani): Avanti! avanti! L'entrata!

E ridiscenderà dal palcoscenico per cogliere l'impressione della scena. S'aprirà l'uscio in fondo e verrà avanti il primo attore, con l'aria spigliata, sbarazzina d'un vecchietto galante. La rappresentazione della scena, eseguita dagli Attori, apparirà fin dalle prime battute un'altra cosa, senza che abbia tuttavia, neppur minimamente, l'aria di una parodia; apparirà piuttosto come rimessa in bello. Naturalmente, la figliastra e il padre, non potendo riconoscersi affatto in quella prima attrice e in quel Primo Attore, sentendo proferir le loro stesse parole, esprimeranno in vario modo, ora con gesti, or con sorrisi, or con aperta protesta, l'impressione che ne ricevono di sorpresa, di meraviglia, di sofferenza, ecc., come si vedrà appresso. S'udrà dal cupolino chiaramente la voce del Suggeritore.

Il primo attore: "Buon giorno, signorina..."
Il padre: (subito, non riuscendo a contenersi). Ma no!

La figliastra, vedendo entrare in quel modo Il primo attore, scoppierà intanto a ridere.

Il capocomico: (infuriato) Facciano silenzio! E lei finisca una buona volta di ridere! Così non si può andare avanti!
La figliastra: (venendo dal proscenio) Ma scusi, è naturalissimo, signore! La signorina (indicherà la prima attrice) se ne sta lì ferma, a posto; ma se dev'esser me, io le posso assicurare che a sentirmi dire "buon giorno" a quel modo e con quel tono, sarei scoppiata a ridere, proprio così come ho riso!
Il padre: (avanzandosi un poco anche lui) Ecco, già...l'aria, il tono...
Il capocomico: Ma che aria! Che tono! Si mettano da parte, adesso, e mi lascino veder la prova!
Il primo attore: (facendosi avanti) Se debbo rappresentare un vecchio, che viene in una casa equivoca...
Il capocomico: Ma sì, non dia retta, per carità! Riprenda, riprenda, ché va benissimo! (In attesa che l'Attore riprenda): Dunque...
Il primo attore: "Buon giorno, signorina..."
La prima attrice: "Buon giorno..."
Il primo attore: (rifacendo il gesto del Padre, di spiare cioè sotto al cappellino, ma poi esprimendo ben distintamente prima la compiacenza e poi il timore) "Ah... - ma...dico, non sarà la prima volta, spero..."
Il padre: (correggendo, irresistibilmente) Non "spero" - "è vero?", "è vero?"
Il capocomico: Dice "è vero" - interrogazione.
Il primo attore: (accennando al Suggeritore) Io ho sentito "spero!"
Il capocomico: Ma sì, è lo stesso! "è vero" o "spero". Prosegua, prosegua - Ecco, forse un po' meno caricato...Ecco glielo farò io, stia a vedere... (Risalirà sul palcoscenico, poi, rifacendo lui la parte fin dall'entrata): - "Buon giorno, signorina..."
La prima attrice: "Buon giorno."
Il capocomico: "Ah, ma... dico... " (rivolgendosi al Primo Attore per fargli notare il modo come avrà guardato la prima attrice di sotto al cappellino): Sorpresa...timore e compiacimento... (Poi, riprendendo, rivolto alla prima attrice): "Non sarà la prima volta, è vero? che lei viene qua... " (Di nuovo, volgendosi con uno sguardo d'intelligenza al Primo Attore): Mi spiego? (alla prima attrice): E lei allora: "No, signore". (Di nuovo, al Primo Attore): Insomma come debbo dire? "Souplesse!"

E ridiscenderà dal Palcoscenico.

La prima attrice: "No, signore..."
Il primo attore: "C'è venuta qualche altra volta? Più d'una?"
Il capocomico: Ma, no, aspetti! Lasci far prima a lei (indicherà la prima attrice) il cenno di sì. "C'è venuta qualche altra volta?"

La prima attrice solleverà un po' il capo socchiudendo penosamente; come per disgusto, gli occhi, e poi a un "Giù" del Capocomico crollerà due volte il capo.

La figliastra: (irresistibilmente) Oh Dio mio! (E subito si porrà una mano sulla bocca per impedire la risata).

Il capocomico: (voltandosi) Che cos'è?
La figliastra: (subito) Niente, niente!
Il capocomico: (al Primo Attore) A lei, a lei, seguiti!
Il primo attore: "Più d'una? E dunque, via...non dovrebbe più esser così...Permette che le levi io codesto cappellino?"

Il primo attore dirà quest'ultima battuta con un tal tono, e la accompagnerà con una tal mossa, che la figliastra, rimasta con le mani sulla bocca, per quanto voglia frenarsi, non riuscirà più a contenere la risata, che le scoppierà di tra le dita irresistibilmente, fragorosa.

La prima attrice: (indignata, tornandosene a posto) Ah, io non sto mica a far la buffona qua per quella lì!
Il primo attore: E neanch'io! Finiamola!
Il capocomico: (alla figliastra, urlando) La finisca! la finisca!
La figliastra. Sì, mi perdoni...mi perdoni...
Il capocomico: Lei è una maleducata! ecco quello che è! Una presuntuosa!
Il padre: (cercando d'interporsi) Sissignore, è vero, è vero; ma la perdoni.
Il capocomico: (risalendo sul palcoscenico) Che vuole che perdoni! È un'indecenza!
Il padre: Sissignore, ma creda, creda, che fa un effetto così strano -
Il capocomico: ...strano? che strano? perché strano?
Il padre: Io ammiro, signore, ammiro i suoi attori: il Signore là, (indicherà il primo attore) la Signorina, (indicherà la prima attrice) ma, certamente...ecco, non sono noi...
Il capocomico: Eh sfido! Come vuole che sieno, «loro», se sono gli attori?
Il padre: Appunto, gli attori! E fanno bene, tutti e due, le nostre parti. Ma creda che a noi pare un'altra cosa, che vorrebbe esser la stessa, e intanto non è!
Il capocomico: Ma come non è? Che cos'è allora?
Il padre: Una cosa, che...diventa di loro; e non più nostra.
Il capocomico: Ma questo, per forza! Gliel'ho già detto!
Il padre: Sì, capisco, capisco...-
Il capocomico: - e dunque, basta! (Rivolgendosi agli Attori): Vuol dire che faremo poi le prove tra noi, come vanno fatte. È stata sempre per me una maledizione provare davanti agli autori! Non sono mai contenti! (Rivolgendosi al Padre e alla figliastra): Su, riattacchiamo con loro; e vediamo se sarà possibile che lei non rida più.
La figliastra: Ah, non rido più, non rido più! Viene il bello adesso per me; stia sicuro!
Il capocomico: Dunque: quando lei dice: "Non badi la prego, a quello che ho detto...Anche per me - capirà!" - (rivolgendosi al Padre): bisogna che lei attacchi subito: "Capisco, ah capisco..." e che immediatamente domandi -
La figliastra: (interrompendo) - come! che cosa?
Il capocomico: La ragione del suo lutto!
La figliastra: Ma no, signore! Guardi: quand'io gli dissi che bisognava che non pensassi d'esser vestita così, sa come mi rispose lui? "Ah, va bene! E togliamolo, togliamolo via subito, allora, codesto vestitino!"
Il capocomico: Bello! Benissimo! Per far saltare così tutto il teatro?
La figliastra: Ma è la verità!
Il capocomico: Ma che verità, mi faccia il piacere! Qua siamo a teatro! La verità, fino a un certo punto!
La figliastra: E che vuol fare lei allora, scusi?
Il capocomico: Lo vedrà, lo vedrà! Lasci fare a me adesso!
La figliastra: No, signore! Della mia nausea, di tutte le ragioni, una più crudele e più vile dell'altra, per cui io sono "questa", "così", vorrebbe forse cavarne un pasticcetto romantico sentimentale, con lui che mi chiede le ragioni del lutto, e io che gli rispondo lacrimando che da due mesi m'è morto papà? No, no, caro signore! Bisogna che lui mi dica come m'ha detto: "Togliamo via subito allora, codesto vestitino!". E io, con tutto il mio lutto nel cuore, di appena due mesi, me ne sono andata là, vede? là, dietro quel paravento, e con queste dita che mi ballano dall'onta, dal ribrezzo, mi sono sganciato il busto, la veste...
Il capocomico: (ponendosi le mani tra i capelli) Per carità! Che dice?
La figliastra: (gridando, frenetica) La verità! la verità, signore!
Il capocomico: Ma sì, non nego, sarà la verità...e comprendo, comprendo tutto il suo orrore, signorina; ma comprenda anche lei che tutto questo sulla scena non è possibile!
La figliastra: Non è possibile? E allora, grazie tante, io non ci sto!
Il capocomico: Ma no, veda...
La figliastra: Non ci sto! non ci sto! Quello che è possibile sulla scena ve lo siete combinato insieme tutti e due, di là, grazie! Lo capisco bene! Egli vuol subito arrivare alla rappresentazione (caricando) dei suoi travagli spirituali; ma io voglio rappresentare il mio dramma! il mio!
Il capocomico: (seccato, scrollandosi fieramente) Oh, infine, il suo! Non c'è soltanto il suo, scusi! C'è anche quello degli altri! Quello di lui, (indicherà il padre) quello di sua madre! Non può stare che un personaggio venga, così, troppo avanti, e sopraffaccia gli altri, invadendo la scena. Bisogna contener tutti in un quadro armonico e rappresentare quel che è rappresentabile! Lo so bene anch'io che ciascuno ha tutta una sua vita dentro e che vorrebbe metterla fuori. Ma il difficile è appunto questo: farne venir fuori quel tanto che è necessario, in rapporto con gli altri; e pure in quel poco fare intendere tutta l'altra vita che resta dentro! Ah, comodo, se ogni personaggio potesse in un bel monologo, o...senz'altro...in una conferenza venire a scodellare davanti al pubblico tutto quel che gli bolle in pentola! (Con tono bonario, conciliativo): Bisogna che lei si contenga, signorina. E creda, nel suo stesso interesse, perché può anche fare una cattiva impressione, glielo avverto, tutta codesta furia dilaniatrice, codesto disgusto esasperato, quando lei stessa, mi scusi, ha confessato di essere stata con altri, prima che con lui, da Madama Pace, più di una volta!
La figliastra: (abbassando il capo, con profonda voce, dopo una pausa di raccoglimento) È vero! Ma pensi che quegli altri sono egualmente lui, per me.
Il capocomico: (non comprendendo) Come, gli altri? Che vuol dire?
La figliastra: Per chi cade nella colpa, signore, il responsabile di tutte le colpe che seguono, non è sempre chi, primo, determinò la caduta? E per me è lui, anche da prima ch'io nascessi. Lo guardi; e veda se non è vero!
Il capocomico: Benissimo! E le par poco il peso di tanto rimorso su lui? Gli dia modo di rappresentarlo!
La figliastra: E come, scusi? dico, come potrebbe rappresentare tutti i suoi "nobili" rimorsi, tutti i suoi tormenti "morali", se lei vuol risparmiargli l'orrore d'essersi un bel giorno trovata tra le braccia, dopo averla invitata a togliersi l'abito del suo lutto recente, donna e già caduta, quella bambina, signore, quella bambina ch'egli si recava a vedere uscire dalla scuola? (Dirà queste ultime parole con voce tremante di commozione).

La madre, nel sentirle dire così, sopraffatta da un ‚empito d'incontenibile ambascia, che s'esprimerà prima in alcuni gemiti soffocati, romperà alla fine in un pianto perduto. La commozione vincerà tutti.

Lunga pausa.

La figliastra: (appena la madre accennerà di quietarsi, soggiungerà, cupa e risoluta). Noi siamo qua tra noi, adesso, ignorati ancora dal pubblico. Lei darà domani di noi quello spettacolo che crederà, concertandolo a suo modo. Ma lo vuol vedere davvero, il dramma? scoppiare davvero, com'è stato?
Il capocomico: Ma sì, non chiedo di meglio, per prenderne fin d'ora quanto sarà possibile!
La figliastra: Ebbene, faccia uscire quella madre.
La madre: (levandosi dal suo pianto, con un urlo) No, no! Non lo permetta, signore! Non lo permetta!
Il capocomico: Ma è solo per vedere, signora!
La madre: Io non posso! non posso!
Il capocomico: Ma se è già tutto avvenuto, scusi! Non capisco!
La madre: No, avviene ora, avviene sempre! Il mio strazio non è finito, signore! Io sono viva e presente, sempre, in ogni momento del mio strazio, che si rinnova, vivo e presente sempre. Ma quei due piccini là, li ha lei sentiti parlare? Non possono più parlare, signore! Se ne stanno aggrappati a me, ancora, per tenermi vivo e presente lo strazio: ma essi, per sè, non sono, non sono più! E questa, (indicherà la figliastra) signore, se n'è fuggita, è scappata via da me e s'è perduta, perduta... Se ora io me la vedo qua è ancora per questo, solo per questo, sempre, sempre, per rinnovarmi sempre, presente, lo strazio che vivo e ho sofferto anche per lei!
Il padre: (solenne) Il momento eterno, com'io le ho detto, signore! Lei (indicherà la figliastra) è qui per cogliermi, fissarmi, tenermi agganciato e sospeso in eterno, alla gogna, in quel solo momento fuggevole e vergognoso della mia vita. Non può rinunziarvi, e lei, signore, non può veramente risparmiarmelo.
Il capocomico: Ma sì, io non dico di non rappresentarlo: formerà appunto il nucleo di tutto il primo atto, fino ad arrivare alla sorpresa di lei - (indicherà la madre).
Il padre: Ecco, sì. Perché è la mia condanna, tutta signore!: tutta la nostra passione, che deve culminare nel grido finale di lei! - (Indicherà anche lui la madre).
La figliastra: L'ho ancora qui negli orecchi! M'ha reso folle quel grido! - Lei può rappresentarmi come vuole signore: non importa! Anche vestita, purché abbia almeno le braccia - solo le braccia - nude, perché, guardi, stando così, (si accosterà al Padre e gli appoggerà la testa sul petto) con la testa appoggiata così, e le braccia così al suo collo, mi vedevo pulsare qui, nel braccio qui, una vena; e allora, come se soltanto quella vena viva mi facesse ribrezzo, strizzai gli occhi, così, così, ed affondai la testa nel suo petto! (Voltandosi verso la madre): Grida, grida, mamma! (Affonderà la testa nel petto del Padre, e con le spalle alzate come per non sentire il grido, soggiungerà con voce di strazio soffocato): Grida, come hai gridato allora!
La madre: (avventandosi per separarli) No! Figlia, figlia mia! (E dopo averla staccata da lui): Bruto, bruto, è mia figlia! Non vedi che è mia figlia?
Il capocomico: (arretrando, al grido; fino alla ribalta, fra lo sgomento degli Attori) Benissimo; sì, benissimo! E allora, sipario, sipario!
Il padre: (accorrendo a lui, convulso) Ecco, sì: perché è stato veramente così, signore!
Il capocomico: (ammirato e convinto) Ma sì, qua, senz'altro! Sipario! Sipario!

Alle grida reiterate del Capocomico, il Macchinista butterà giù il sipario, lasciando fuori, davanti alla ribalta, il capocomico e il padre.

Il capocomico: (guardando in alto, con le braccia alzate). Ma che bestia! Dico sipario per intendere che l'Atto deve finir così, e m'abbassano il sipario davvero! (Al Padre, sollevando un lembo della tenda per rientrare nel palcoscenico): Sì, sì, benissimo! benissimo! Effetto sicuro! Bisogna finir così. Garantisco, garantisco, per questo Primo Atto!

Rientrerà col Padre.




* * *

 
Top
svid
view post Posted on 7/4/2005, 00:49




Riaprendosi il sipario si vedrà che i Macchinisti e Apparatori avranno disfatto quel primo simulacro di scena e messo su, invece, una piccola vasca da giardino. Da una parte del palcoscenico staranno seduti in fila gli Attori e dall'altra i Personaggi. Il capocomico sarà in piedi, in mezzo al palcoscenico, con una mano sulla bocca a pugno chiuso in atto di meditare.

Il capocomico: (scrollandosi dopo una breve pausa) Oh, dunque: veniamo al Secondo Atto! Lascino, lascino fare a me, come avevamo prima stabilito, che andrà benone!
La figliastra: La nostra entrata in casa di lui (indicherà il padre) a dispetto di quello lì! (indicherà il Figlio)
Il capocomico: (spazientito) Sta bene; ma lasci fare a me, le dico!
La figliastra: Purché appaja chiaro il dispetto!
La madre: (dal suo canto tentennando il capo) Per tutto il bene che ce n'è venuto...
La figliastra: (voltandosi a lei di scatto) Non importa! Quanto più danno a noi, tanto più rimorso per lui!
Il capocomico: (spazientito) Ho capito, ho capito! E si terrà conto di questo in principio sopratutto! Non dubiti!
La madre: (supplichevole) Ma faccia che si capisca bene, la prego, signore, per la mia coscienza ch'io cercai in tutti i modi -
La figliastra: (interrompendo con sdegno, e seguitando) - di placarmi, di consigliarmi che questo dispetto non gli fosse fatto! (Al Capocomico): La contenti, la contenti, perché è vero! Io ne godo moltissimo; perché, intanto, si può vedere: più lei è così supplice, più tenta d'entrargli nel cuore, e più quello lì si tien lontano: "as-sen-te"! Che gusto!
Il capocomico: Vogliamo insomma cominciarlo, questo Secondo Atto?
La figliastra: Non parlo più. Ma badi che svolgerlo tutto nel giardino, come lei vorrebbe, non sarà possibile!
Il capocomico: Perché non sarà possibile?
La figliastra. Perché lui (indicherà di nuovo il Figlio) se ne sta sempre chiuso in camera, appartato! E poi, in casa, c'è da svolgere tutta la parte di quel povero ragazzo lì, smarrito, come le ho detto.
Il capocomico: Eh già! Ma d'altra parte, capiranno, non possiamo mica appendere i cartellini o cambiar di scena a vista, tre o quattro volte per Atto!
Il primo attore: Si faceva un tempo...
Il capocomico: Sì, quando il pubblico era forse come quella bambina lì!
La prima attrice: E l'illusione, più facile!
Il padre: (con uno scatto, alzandosi) L'illusione? Per carità, non dicano l'illusione! Non adoperino codesta parola, che per noi è particolarmente crudele!
Il capocomico: (stordito) E perché, scusi?
Il padre: Ma sì, crudele! crudele! Dovrebbe capirlo!
Il capocomico: E come dovremmo dire allora? L'illusione da creare, qua, agli spettatori -
Il primo attore: - con la nostra rappresentazione -
Il capocomico: - l'illusione d'una realtà!
Il padre: Comprendo, signore. Forse lei, invece, non può comprendere noi. Mi scusi! Perché - veda - qua per lei e per i suoi attori si tratta soltanto - ed è giusto - del loro giuoco.
La prima attrice: (interrompendo sdegnata) Ma che giuoco! Non siamo mica bambini! Qua si recita sul serio.
Il padre: Non dico di no. E intendo, infatti, il giuoco della loro arte, che deve dare appunto - come dice il signore - una perfetta illusione di realtà.
Il capocomico: Ecco, appunto!
Il padre: Ora, se lei pensa che noi come noi (indicherà sè e sommariamente gli altri cinque Personaggi) non abbiamo altra realtà fuori di questa illusione!
Il capocomico: (stordito, guardando i suoi Attori rimasti anch'essi come sospesi e smarriti) E come sarebbe a dire?
Il padre: (dopo averli un po' osservati, con un pallido sorriso) Ma sì, signori! Quale altra? Quella che per loro è un'illusione da creare, per noi è invece l'unica nostra realtà. (Breve pausa. Si avanzerà di qualche passo verso il capocomico, e soggiungerà): Ma non soltanto per noi, del resto, badi! Ci pensi bene. (Lo guarderà negli occhi). Mi sa dire chi è lei? (E rimarrà con l'indice appuntato su lui).
Il capocomico: (turbato, con un mezzo sorriso) Come, chi sono? - Sono io!
Il padre: E se le dicessi che non è vero, perché lei è me?
Il capocomico: Le risponderei che lei è un pazzo!

Gli Attori rideranno.

Il padre: Hanno ragione di ridere: perché qua si giuoca; (al Direttore): e lei può dunque obbiettarmi che soltanto per un giuoco quel signore là (indicherà il primo attore) che è "lui", dev'esser "me", che viceversa sono io, "questo". Vede che l'ho colto in trappola? (Gli attori torneranno a ridere).
Il capocomico: (seccato) Ma questo s'è già detto poco fa! Daccapo?
Il padre: No, no. Non volevo dir questo, infatti. Io la invito anzi a uscire da questo giuoco (guardando la prima attrice, come per prevenire) - d'arte! d'arte! - che lei è solito di fare qua coi suoi attori; e torno a domandarle seriamente: chi è lei?
Il capocomico: (rivolgendosi quasi strabiliato, e insieme irritato, agli Attori) Oh, ma guardate che ci vuole una bella faccia tosta! Uno che si spaccia per personaggio, venire a domandare a me, chi sono!
Il padre: (con dignità, ma senza alterigia) Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre "qualcuno". Mentre un uomo - non dico lei, adesso - un uomo così in genere, può non esser "nessuno".
Il capocomico: Già! Ma lei lo domanda a me, che sono il direttore! Il capocomico! Ha capito?
Il padre: (quasi in sordina, con melliflua umiltà) Soltanto per sapere, signore, se veramente lei com'è adesso, si vede... come vede per esempio, a distanza di tempo, quel che lei era una volta, con tutte le illusioni che allora si faceva; con tutte le cose, dentro e intorno a lei, come allora le parevano - ed erano, erano realmente per lei! - Ebbene, signore: ripensando a quelle illusioni che adesso lei non si fa più, a tutte quelle cose che ora non le "sembrano" più come per lei "erano" un tempo; non si sente mancare, non dico queste tavole di palcoscenico, ma il terreno, il terreno sotto i piedi, argomentando che ugualmente "questo" come lei ora si sente, tutta la sua realtà d'oggi così com'è, è destinata a parerle illusione domani?
Il capocomico: (senza aver ben capito, nell'intontimento della speciosa argomentazione ) Ebbene? E che vuol concludere con questo?
Il padre: Oh, niente, signore. Farle vedere che se noi (indicherà di nuovo sè e gli altri Personaggi) oltre la illusione, non abbiamo altra realtà, è bene che anche lei diffidi della realtà sua, di questa che lei oggi respira e tocca in sè, perché - come quella di jeri - è destinata a scoprirlesi illusione domani.
Il capocomico: (rivolgendosi a prenderla in riso) Ah, benissimo! E dica per giunta che lei, con codesta commedia che viene a rappresentarmi qua, è più vero e reale di me!
Il padre: (con la massima serietà) Ma questo senza dubbio, signore!
Il capocomico: Ah sì?
Il padre: Credevo che lei lo avesse già compreso fin da principio.
Il capocomico: Più reale di me?
Il padre: Se la sua realtà può cangiare dall'oggi al domani...
Il capocomico: Ma si sa che può cangiare, sfido! Cangia continuamente, come quella di tutti!
Il padre: (con un grido) Ma la nostra no, signore! Vede? La differenza è questa! Non cangia, non può cangiare, né esser altra, mai, perché già fissata - così - "questa" - per sempre - (è terribile, signore!) realtà immutabile, che dovrebbe dar loro un brivido nell'accostarsi a noi!
Il capocomico: (con uno scatto, parandoglisi davanti per un'idea che gli sorgerà all'improvviso). Io vorrei sapere però, quando mai s'è visto un personaggio che, uscendo dalla sua parte, si sia messo a perorarla così come fa lei, e a proporla, a spiegarla. Me lo sa dire? Io non l'ho mai visto!
Il padre: Non l'ha mai visto, signore, perché gli autori nascondono di solito il travaglio della loro creazione. Quando i personaggi son vivi, vivi veramente davanti al loro autore, questo non fa altro che seguirli nelle parole, nei gesti ch'essi appunto gli propongono, e bisogna ch'egli li voglia com'essi si vogliono; e guai se non fa così! Quando un personaggio è nato, acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può esser da tutti immaginato in tant'altre situazioni in cui l'autore non pensò di metterlo, e acquistare anche, a volte, un significato che l'autore non si sognò mai di dargli!
Il capocomico: Ma sì, questo lo so!
Il padre: E dunque, perché si fa meraviglia di noi? Immagini per un personaggio la disgrazia che le ho detto, d'esser nato vivo dalla fantasia d'un autore che abbia voluto poi negargli la vita, e mi dica se questo personaggio lasciato così, vivo e senza vita, non ha ragione di mettersi a fare quel che stiamo facendo noi, ora, qua davanti a loro, dopo averlo fatto a lungo a lungo, creda, davanti a lui per persuaderlo, per spingerlo, comparendogli ora io, ora lei, (indicherà la figliastra) ora quella povera madre...
La figliastra: (venendo avanti come trasognata) È vero, anch'io, anch'io signore, per tentarlo, tante volte, nella malinconia di quel suo scrittojo, all'ora del crepuscolo, quand'egli, abbandonato su una poltrona, non sapeva risolversi a girar la chiavetta della luce e lasciava che l'ombra gl'invadesse la stanza e che quell'ombra brulicasse di noi, che andavamo a tentarlo... (Come se si vedesse ancora là in quello scrittojo e avesse fastidio della presenza di tutti quegli Attori): Se loro tutti se n'andassero! se ci lasciassero soli! La mamma lì, con quel figlio - io con quella bambina - quel ragazzo là sempre solo - e poi io con lui (indicherà appena il padre) - e poi io sola, io sola...- in quell'ombra (balzerà a un tratto, come se nella visione che ha di sè, lucente in quell'ombra e viva, volesse afferrarsi) ah, la mia vita! Che scene, che scene andavamo a proporgli! - Io, io lo tentavo più di tutti!
Il padre: Già! Ma forse è stato per causa tua; appunto per codeste tue troppe insistenze, per le tue troppe incontinenze!
La figliastra: Ma che! Se egli stesso m'ha voluta così! (Verrà presso al Capocomico per dirgli come in confidenza): Io credo che fu piuttosto, signore, per avvilimento o per sdegno del teatro, così come il pubblico solitamente lo vede e lo vuole...
Il capocomico: Andiamo avanti, andiamo avanti, santo Dio, e veniamo al fatto, signori miei!.
La figliastra: Eh, ma mi pare, scusi, che di fatti ne abbia fin troppi, con la nostra entrata in casa di lui! (Indicherà il Padre) Diceva che non poteva appendere i cartellini o cangiar di scena ogni cinque minuti!
Il capocomico: Già! Ma appunto! Combinarli, aggrupparli in un'azione simultanea e serrata, e non come pretende lei, che vuol vedere prima il suo fratellino che ritorna dalla scuola e s'aggira come un'ombra per le stanze, nascondendosi dietro gli usci a meditare un proposito, in cui - com'ha detto? -
La figliastra: - si dissuga, signore, si dissuga tutto!
Il capocomico: Non ho mai sentito codesta parola! E va bene: "crescendo soltanto negli occhi", è vero?
La figliastra: Sissignore: eccolo lì! (Lo indicherà presso la madre).
Il capocomico: Brava! E poi, contemporaneamente, vorrebbe anche quella bambina che giuoca, ignara, nel giardino. L'uno in casa, e l'altra nel giardino, è possibile?
La figliastra: Ah, nel sole, signore, felice! È l'unico mio premio, la sua allegria, la sua festa, in quel giardino; tratta dalla miseria, dallo squallore di un'orribile camera dove dormivamo tutti e quattro - e io con lei - io, pensi! con l'orrore del mio corpo contaminato, accanto a lei che mi stringeva forte forte coi suoi braccini amorosi e innocenti. Nel giardino, appena mi vedeva, correva a prendermi per mano. I fiori grandi non li vedeva; andava a scoprire invece tutti quei "pittoli pittoli" e me li voleva mostrare, facendo una festa, una festa!

Così dicendo, straziata dal ricordo, romperà in un pianto lungo, disperato, abbattendo il capo sulle braccia abbandonate sul tavolino. La commozione vincerà tutti. Il capocomico le si accosterà quasi paternamente, e le dirà per confortarla:

Il capocomico: Faremo il giardino, faremo il giardino, non dubiti: e vedrà che ne sarà contenta! Le scene le aggrupperemo lì! (Chiamando per nome un Apparatore): Ehi, calami qualche spezzato d'alberi! Due cipressetti qua davanti a questa vasca!

Si vedranno calare dall'alto del palcoscenico due cipressetti. Il Macchinista, accorrendo, fermerà coi chiodi i due pedani.

Il capocomico: (alla figliastra) Così alla meglio, adesso, per dare un'idea. (Richiamerà per nome l'Apparatore). Ehi, dammi ora un po' di cielo!
L'apparatore: (dall'alto) Che cosa?
Il capocomico: Un po' di cielo! Un fondalino, che cada qua dietro questa vasca!

Si vedrà calare dall'alto del palcoscenico una tela bianca.

Il capocomico: Ma non bianco! T'ho detto cielo! Non fa nulla, lascia: rimedierò io. (Chiamando): Ehi, elettricista, spegni tutto e dammi un po' di atmosfera... atmosfera lunare...blu, blu alle bilance, e blu sulla tela, col riflettore... Così! Basta!

Si sarà fatta, a comando, una misteriosa scena lunare, che indurrà gli Attori a parlare e muoversi come di sera, in un giardino, sotto la luna.

Il capocomico: (alla figliastra) Ecco, guardi! E ora il giovinetto, invece di nascondersi dietro gli usci delle stanze, potrebbe aggirarsi qua nel giardino, nascondendosi dietro gli alberi. Ma capirà che sarà difficile trovare una bambina che faccia bene la scena con lei, quando le mostra i fiorellini. (Rivolgendosi al Giovinetto): Venga, venga avanti lei, piuttosto! Vediamo di concretare un po'! (E poiché il ragazzo non si muove): Avanti, avanti! (Poi, tirandolo avanti, cercando di fargli tener ritto il capo che ogni volta ricasca giù): Ah, dico, un bel guajo, anche questo ragazzo...Ma com'è? ...Dio mio, bisognerebbe pure che qualche cosa dicesse... (Gli s'appresserà, gli poserà una mano sulla spalla, lo condurrà dietro allo spezzato d'alberi). Venga, venga un po': mi faccia vedere! Si nasconda un po' qua...Così... Si provi a sporgere un po' il capo, a spiare... (Si scosterà per vedere l'effetto: e appena il Giovinetto eseguirà l'azione tra lo sgomento degli Attori che resteranno impressionatissimi): Ah, benissimo...benissimo... (Rivolgendosi alla figliastra): E dico, se la bambina, sorprendendolo così a spiare, accorresse a lui e gli cavasse di bocca almeno qualche parola?
La figliastra: (sorgendo in piedi) Non speri che parli, finché c'è quello lì! (Indicherà il Figlio). Bisognerebbe che lei mandasse via, prima, quello lì.
Il figlio: (avviandosi risoluto verso una delle due scalette) Ma prontissimo! Felicissimo! Non chiedo di meglio!
Il capocomico: (subito trattenendolo) No! Dove va? Aspetti!

La madre si alzerà sgomenta, angosciata dal pensiero che egli se ne vada davvero, e istintivamente leverà le braccia quasi per trattenerlo, pur senza muoversi dal suo posto.

Il figlio: (arrivando alla ribalta, al Capocomico che lo tratterrà) Non ho proprio nulla, io, da far qui! Me ne lasci andare, la prego! Me ne lasci andare!
Il capocomico: Come non ha nulla da fare?
La figliastra: (placidamente, con ironia) Ma non lo trattenga! Non se ne va!
Il padre: Deve rappresentare la terribile scena del giardino con sua madre!
Il figlio: (subito, risoluto, fieramente) Io non rappresento nulla! E l'ho dichiarato fin da principio! (Al Capocomico): Me ne lasci andare!
La figliastra: (accorrendo, al Capocomico) Permette, signore? (Gli farà abbassare le braccia, con cui trattiene il Figlio. Lo lasci! (Poi, rivolgendosi a lui, appena il capocomico lo avrà lasciato): Ebbene, vattene! -

Il Figlio resterà proteso verso la scaletta, ma, come legato da un potere occulto, non potrà scenderne gli scalini; poi, tra lo stupore e lo sgomento ansioso degli Attori, si moverà lentamente lungo la ribalta, diretto all'altra scaletta del palcoscenico; ma giuntovi, resterà anche lì proteso, senza poter discendere. La figliastra, che lo avrà seguito con gli occhi in atteggiamento di sfida, scoppierà a ridere.

- Non può, vede? non può! Deve restar qui, per forza, legato alla catena, indissolubilmente. Ma se io che prendo il volo, signore, quando accade ciò che deve accadere - proprio per l'odio che sento per lui, proprio per non vedermelo più davanti - ebbene, se io sono ancora qua, e sopporto la sua vista e la sua compagnia - si figuri se può andarsene via lui che deve, deve restar qua veramente con questo suo bel padre, e quella madre là, senza più altri figli che lui... (Rivolgendosi alla madre): - E su, su, mamma! Vieni... (Rivolgendosi al Capocomico per indicargliela): - Guardi, s'era alzata, s'era alzata per trattenerlo... (Alla madre, quasi attirandola per virtù magica): - Vieni, Vieni... (Poi al Capocomico): - Immagini che cuore può aver lei di mostrare qua ai suoi attori quello che prova; ma è tanta la brama d'accostarsi a lui, che - eccola - vede? è disposta a vivere la sua scena!

Difatti la madre si sarà accostata, e appena la figliastra finirà di proferire le ultime parole, aprirà le braccia per significare che acconsente.

Il figlio: (subito) Ah, ma io no! Io no! Se non me ne posso andare, resterò qua; ma le ripeto che io non rappresento nulla!
Il padre: (al Capocomico, fremendo) Lei lo può costringere, signore!
Il figlio: Non può costringermi nessuno!
Il padre: Ti costringerò io!
La figliastra: Aspettate! Aspettate! Prima, la bambina alla vasca! (Correrà a prendere la Bambina, si piegherà sulle gambe davanti a lei, le prenderà la faccina tra le mani). Povero amorino mio, tu guardi smarrita, con codesti occhioni belli: chi sa dove ti par d'essere! Siamo su un palcoscenico, cara! Che cos'è un palcoscenico? Ma, vedi? un luogo dove si giuoca a far sul serio. Ci si fa la commedia. E noi faremo ora la commedia. Sul serio, sai! Anche tu... (L'abbraccerà, stringendosela sul seno e dondolandosi un po'). Oh amorino mio, amorino mio, che brutta commedia farai tu! che cosa orribile è stata pensata per te! Il giardino, la vasca...Eh, finta, si sa! Il guajo è questo, carina: che è tutto finto, qua! Ah, ma già forse a te bambina, piace più una vasca finta che una vera; per poterci giocare, eh? Ma no, sarà per gli altri un gioco; non per te, purtroppo, che sei vera, amorino, e che giochi per davvero in una vasca vera, bella, grande, verde, con tanti bambù che vi fanno l'ombra, specchiandovisi, e tante tante anatrelle che vi nuotano sopra, rompendo quest'ombra. Tu la vuoi acchiappare, una di queste anatrelle.. (Con un urlo che riempie tutti di sgomento): no, Rosetta mia, no! La mamma non bada a te, per quella canaglia di figlio là! Io sono con tutti i miei diavoli in testa...E quello lì... (Lascerà la Bambina e si rivolgerà col solito piglio al Giovinetto): Che stai a far qui, sempre con codest'aria di mendico? Sarà anche per causa tua, se quella piccina affoga: per codesto tuo star così, come se io facendovi entrare in casa non avessi pagato per tutti! (Afferrandogli un braccio per forzarlo a cacciar fuori dalla tasca una mano): Che hai lì? Che nascondi? Fuori, fuori questa mano! (Gli strapperà la mano dalla tasca e, tra l'orrore di tutti, scoprirà ch'essa impugna una rivoltella. Lo mirerà un po' come soddisfatta: poi dirà, cupa): Ah! Dove, come te la sei procurata? (E poiché il Giovinetto, sbigottito, sempre con gli occhi sbarrati e vani, non risponderà): Sciocco, in te, invece d'ammazzarmi, io, avrei ammazzato uno di quei due; o tutti e due: il padre e il figlio!

Lo ricaccerà dietro al cipressetto da cui stava a spiare; poi prenderà la Bambina e la calerà dentro la vasca, mettendovela a giacere in modo che resti nascosta; infine, si accascerà lì, col volto tra le braccia appoggiate all'orlo della vasca.

Il capocomico: Benissimo! (Rivolgendosi al Figlio): E contemporaneamente...
Il figlio: (con sdegno) Ma che contemporaneamente! Non è vero, signore! Non c'è stata nessuna scena fra me e lei! (Indicherà la madre). Se lo faccia dire da lei stessa, come è stato.

Intanto la Seconda Donna e l'Attor Giovane si saranno staccati dal gruppo degli Attori e l'una si sarà messa a osservare con molta attenzione la madre che le starà di fronte, e l'altro il Figlio, per poterne poi rifare le parti.

La madre: Sì, è vero, signore! Io ero entrata nella sua camera.
Il figlio: Nella mia camera, ha inteso? Non nel giardino!
Il capocomico: Ma questo non ha importanza! Bisogna raggruppar l'azione, ho detto!
Il figlio: (scorrendo l'Attor Giovane che l'osserva) Che cosa vuol lei?
L'attor giovane: Niente; la osservo.
Il figlio: (voltandosi dall'altra parte, alla Seconda Donna) Ah - e qua c'è lei? Per rifar la sua parte? (Indicherà la madre).
Il capocomico: Per l'appunto! Per l'appunto! E dovrebbe esser grato, mi sembra, di questa loro attenzione!
Il figlio: Ah, si! Grazie! Ma non ha ancora compreso che questa commedia lei non la può fare! Noi non siamo mica dentro di lei, e i suoi attori stanno a guardarci da fuori. Le par possibile che si viva davanti a uno specchio che, per di più, non contento d'agghiacciarci con l'immagine della nostra stessa espressione, ce la ridà come una smorfia irriconoscibile di noi stessi?
Il padre: Questo è vero! Questo è vero! Se ne persuada!
Il capocomico: (all'Attor Giovane e alla Seconda Donna) Va bene, si levino davanti!
Il figlio: È inutile! Io non mi presto.
Il capocomico: Si stia zitto, adesso, e mi lasci sentir sua madre! (Alla madre): Ebbene? Era entrata?
La madre: Sissignore, nella sua camera, non potendone più. Per votarmi il cuore di tutta l'angoscia che m'opprime. Ma appena lui mi vide entrare -
Il figlio: - nessuna scena! Me ne andai; me n'andai per non fare una scena. Perché non ho mai fatto scene, io; ha capito?
La madre: È vero! È così. È così!
Il capocomico: Ma ora bisogna pur farla questa scena tra lei e lui! È indispensabile!
La madre: Per me, signore, io sono qua! Magari mi desse lei il modo di potergli parlare un momento, di potergli dire tutto quello che mi sta nel cuore. Il padre (appressandosi al Figlio, violentissimo) Tu la farai! per tua madre! per tua madre!
Il figlio: (più che risoluto) Non faccio nulla!
Il padre: (afferrandolo per il petto, e scrollandolo) Per Dio, obbedisci! Obbedisci! Non senti come ti parla! Non hai viscere di figlio?
Il figlio: (afferrandolo anche lui) No! No! e finiscila una buona volta!

Costernazione generale. La madre, spaventata, cercherà di interporsi, di separarli.

La madre: (c.s.) Per carità! Per carità!
Il padre: (senza lasciarlo) Devi obbedire! Devi obbedire!
Il figlio: (colluttando con lui e alla fine buttandolo a terra presso la scaletta, tra l'orrore di tutti) Ma che cos'è codesta frenesia che t'ha preso? Non ha ritegno di portare davanti a tutti la sua vergogna e la nostra! Io non mi presto! non mi presto! E interpreto così la volontà di chi non volle portarci sulla scena!
Il capocomico: Ma se ci siete venuti!
Il figlio: (additando il padre) Lui, non io!
Il capocomico: E non è qua anche lei?
Il figlio: C'è voluto venir lui, trascinandoci tutti e prestandosi anche a combinare di là insieme con lei non solo quello che è realmente avvenuto; ma come se non bastasse, anche quello che non c'è stato!
Il capocomico: Ma dica, dica lei almeno che cosa c'è stato! Lo dica a me! Se n'è uscito dalla sua camera, senza dir nulla?
Il figlio: (dopo un momento d'esitazione) Nulla. Proprio, per non fare una scena!
Il capocomico: (incitandolo) Ebbene, e poi? che ha fatto?
Il figlio: (tra l'angosciosa attenzione di tutti, muovendo alcuni passi sul palcoscenico) Nulla...Attraversando il giardino...

S'interromperà, fosco, assorto.

Il capocomico: (spingendolo sempre più a dire, impressionato dal ritegno di lui) Ebbene? attraversando il giardino?
Il figlio: (esasperato, nascondendo il volto con un braccio) Ma perché mi vuol far dire, signore? È orribile!

La madre tremerà tutta, con gemiti soffocati, guardando verso la vasca.

Il capocomico: (piano, notando quello sguardo, si rivolgerà al Figlio con crescente apprensione) La bambina?
Il figlio: (guardando davanti a sè, nella sala) Là, nella vasca...
Il padre: (a terra, indicando pietosamente la madre) E lei lo seguiva, signore!
Il capocomico: (al Figlio, con ansia) E allora, lei?
Il figlio: (lentamente, sempre guardando davanti a sè). Accorsi; mi precipitai per ripescarla...Ma a un tratto m'arrestai, perché dietro quegli alberi vidi una cosa che mi gelò: il ragazzo, il ragazzo che se ne stava lì fermo, con occhi da pazzo, a guardare nella vasca la sorellina affogata. -

La figliastra, rimasta curva presso la vasca a nascondere la Bambina, risponderà come un'eco dal fondo, singhiozzando perdutamente.

Pausa.

- Feci per accostarmi; e allora...

Rintronerà dietro gli alberi, dove il Giovinetto è rimasto nascosto, un colpo di rivoltella.

La madre: (con un grido straziante, accorrendo col Figlio e con tutti gli Attori in mezzo al subbuglio generale) Figlio! Figlio mio! (E poi, fra la confusione e le grida sconnesse degli altri): Ajuto! Ajuto!
Il capocomico: (tra le grida, cercando di farsi largo, mentre il Giovinetto sarà sollevato da capo e da piedi e trasportato via, dietro la tenda bianca) S'è ferito? s'è ferito davvero?

Tutti, tranne il capocomico e il padre, rimasto per terra presso la scaletta, saranno scomparsi dietro il fondalino abbassato, che fa da cielo, e vi resteranno un po' parlottando angosciosamente, poi, da una parte e dall'altra di esso, rientreranno in iscena gli Attori.

La prima attrice: (rientrando da destra, addolorata) È morto! Povero ragazzo! È morto! Oh che cosa!
Il primo attore: (rientrando da sinistra, ridendo) Ma che morto! Finzione! finzione! Non ci creda!
Altri attori da destra: Finzione? Realtà! realtà! È morto!
Altri attori da sinistra: No! Finzione! Finzione!
Il padre: (levandosi e gridando tra loro) Ma che finzione! Realtà, realtà, signori! realtà!

E scomparirà anche lui, disperatamente, dietro il fondalino.

Il capocomico: (non potendone più) Finzione! realtà! Andate al diavolo tutti quanti! Luce! Luce! Luce! -

D'un tratto, tutto il palcoscenico e tutta la sala del teatro sfolgoreranno di vivissima luce. Il capocomico rifiaterà come liberato da un incubo, e tutti si guarderanno negli occhi, sospesi e smarriti.

- Ah! Non m'era mai capitata una cosa simile! Mi hanno fatto perdere una giornata! (Guarderà l'orologio). Andate, andate! Che volete più fare adesso? Troppo tardi per ripigliare la prova. A questa sera! (E appena gli Attori se ne saranno andati, salutandolo): Ehi, elettricista, spegni tutto! (Non avrà finito di dirlo, che il teatro piomberà per un attimo nella più fitta oscurità). Eh, perdio! Lasciami almeno accesa una lampadina, per vedere dove metto i piedi!

Subito, dietro il fondalino, come per uno sbaglio d'attacco, s'accenderà un riflettore verde, che proietterà, grandi e spiccate, le ombre dei Personaggi, meno il Giovinetto e la Bambina. Il capocomico, vedendole, schizzerà via dal palcoscenico, atterrito. Contemporaneamente si spegnerà il riflettore dietro il fondalino, e si rifarà sul palcoscenico il notturno azzurro di prima. Lentamente, dal lato destro della tela verrà prima avanti il Figlio, seguito dalla madre con le braccia protese verso di lui; poi dal lato sinistro il padre.
Si fermeranno a metà del palcoscenico, rimanendo lì come forme trasognate. Verrà fuori, ultima, da sinistra, la figliastra che correrà verso una delle scalette; sul primo scalino si fermerà un momento a guardare gli altri tre e scoppierà in una stridula risata, precipitandosi poi giù per la scaletta; correrà attraverso il corridojo tra le poltrone; si fermerà ancora una volta e di nuovo riderà, guardando i tre rimasti lassù; scomparirà dalla sala, e ancora, dal ridotto, se ne udrà la risata. Poco dopo calerà la tela.

FINE
 
Top
camillamencarelli
view post Posted on 15/5/2005, 13:43




Luigi Pirandello

Uno, nessuno centomila


LIBRO PRIMO.

I.Mia moglie e il mio naso.

«Che fai?» mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
«Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.»
Mia moglie sorrise e disse:
«Credevo ti guardassi da che parte ti pende.»
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
«Mi pende? A me? Il naso?»
E mia moglie, placidamente:
«Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.»

Avevo ventotto anni e sempre hn allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m'era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d'essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí...
«Che altro?»
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú sporgente dell'altra; e altri difetti...
«Ancora?»
Eh sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell'altra: verso il ginocchio, un pochino.
Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m'esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell'uomo.
Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo "grazie" e, sicuro di non aver motivo né d'addolorarmi né d'avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant'anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.
«Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.»
Ecco, già - le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giú per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla.
«Si vede,» - voi dite, «che avevate molto tempo da perdere.»
No, ecco. Per l'animo in cui mi trovavo. Ma del resto sí, anche per l'ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sí, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover'uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.
E non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui mio padre m'incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre piú da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d'una montagna insormontabile, anzi d'un mondo in cui avrei potuto senz'altro domiciliarmi.
Ero rimasto cosí, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m'erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza piú di me. M'erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente piú li loro; ma andare, non sapevo dove andare.
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque possibile? non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che piú intimamente m'appartenevano: il naso le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l'esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo cosí misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene.


--------------------------------------------------------------------------------

II. E il vostro naso?

Già subito mi figurai che tutti, avendone fatta mia moglie la scoperta, dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in me.
«Mi guardi il naso?» domandai tutt'a un tratto quel giorno stesso a un amico che mi s'era accostato per parlarmi di non so che affare che forse gli stava a cuore.
«No, perché?» mi disse quello.
E io, sorridendo nervosamente:
«Mi pende verso destra, non vedi?
E glielo imposi a una ferma e attenta osservazione, come quel difetto del mio naso fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell'universo.
L'amico mi guardò in prima un po' stordito; poi, certo sospettando che avessi cosí all'improvviso e fuor di luogo cacciato fuori il discorso del mio naso perché non stimavo degno né d'attenzione, né di risposta l'affare di cui mi parlava, diede una spallata e si mosse per lasciarmi in asso. Lo acchiappai per un braccio, e:
«No, sai,» gli dissi, «sono disposto a trattare con te codest'affare. Ma in questo momento tu devi scusarmi.»
«Pensi al tuo naso?»
«Non m'ero mai accorto che mi pendesse verso desta. Me n'ha fatto accorgere, questa mattina, mia moglie.»
«Ah, davvero?» mi domandò allora l'amico; e gli occhi gli risero d'una incredulità ch'era anche derisione.
Restai a guardarlo come già mia moglie la mattina, cioè con un misto d'avvilimento, di stizza e di maraviglia. Anche lui dunque da un pezzo se n'era accorto? E chi sa quant'altri con lui! E io non lo sapevo e, non sapendolo, credevo d'essere per tutti un Moscarda col naso dritto, mentr'ero invece per tutti un Moscarda col naso storto; e chi sa quante volte m'era avvenuto di parlare, senz'alcun sospetto, del naso difettoso di Tizio o di Caio e quante volte perciò non avevo fatto ridere di me e pensare:
«Ma guarda un po' questo pover'uomo che parla dei difetti del naso altrui!»
Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione.
Mi si fissò invece il pensiero ch'io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m'ero figurato d'essere.
Per il momento pensai al corpo soltanto e, siccome quel mio amico seguitava a starmi davanti con quell'aria d'incredulità derisoria, per vendicarmi gli domandai se egli, dal canto suo, sapesse d'aver nel mento una fossetta che glielo divideva in due parti non del tutto eguali: una piú rilevata di qua, una piú scempia di là.
«Io? Ma che!» esclamò l'amico. «Ci ho la fossetta, lo so, ma non come tu dici.»
«Entriamo là da quel barbiere, e vedrai,» gli proposi subito.
Quando l'amico, entrato dal barbiere, s'accorse con maraviglia del difetto e riconobbe ch'era vero, non volle mostrarne stizza; disse che, in fin dei conti, era una piccolezza.
Eh sí, senza dubbio, una piccolezza; vidi però, seguendolo da lontano, che si fermò una prima volta a una vetrina di bottega, e poi una seconda volta, piú là, davanti a un'altra; e piú là ancora e piú a lungo, una terza volta, allo specchio d'uno sporto per osservarsi il mento; e son sicuro che, appena rincasato, sarà corso all'armadio per far con piú agio a quell'altro specchio la nuova conoscenza di sé con quel difetto. E non ho il minimo dubbio che, per vendicarsi a sua volta, o per seguitare uno scherzo che gli parve meritasse una larga diffusione in paese, dopo aver domandato a qualche suo amico (come già io a lui) se mai avesse notato quel suo difetto al mento, qualche altro difetto avrà scoperto lui o nella fronte o nella bocca di questo suo amico, il quale, a sua volta... - ma sí! ma sí! - potrei giurare che per parecchi giorni di fila nella nobile città di Richieri io vidi (se non fu proprio tutta mia immaginazione) un numero considerevolissimo di miei concittadini passare da una vetrina di bottega all'altra e fermarsi davanti a ciascuna a osservarsi nella faccia chi uno zigomo e chi la coda d'un occhio, chi un lobo d'orecchio e chi una pinna di naso. E ancora dopo una settimana un certo tale mi s’accostò con aria smarrita per domandarmi se era vero che, ogni qual volta si metteva a parlare, contraeva inavvertitamente la pàlpebra dell'occhio sinistro.
«Sí, caro,» gli dissi a precipizio. «E io, vedi? il naso mi pende verso destra; ma lo so da me; non c'è bisogno che me lo dica tu; e le sopracciglia? ad accento circonflesso! le orecchie, qua, guarda, una piú sporgente dell'altra; e qua, le mani: piatte, eh? e la giuntura storpia di questo mignolo; e le gambe? qua, questa qua, ti pare che sia come quest'altra? no, eh? Ma lo so da me e non c'è bisogno che me lo dica tu. Statti bene.»
Lo piantai lí, e via. Fatti pochi passi, mi sentii richiamare.
«Ps!»
Placido placido, col dito, colui m'attirava a sé per domandarmi:
«Scusa, dopo di te, tua madre non partorí altri figliuoli?
«No: né prima né dopo,» gli risposi. «Figlio unico. Perché?»
«Perché,» mi disse, «se tua madre avesse partorito un'altra volta, avrebbe avuto di certo un altro maschio.»
«Ah sí? Come lo sai?»
«Ecco: dicono le donne del popolo che quando a un nato i capelli terminano sulla nuca in un codiniccio come codesto che tu hai costí, sarà maschio il nato appresso.»
Mi portai una mano alla nuca e con un sogghignetto frigido gli domandai:
«Ah, ci ho un... com'hai detto?»
E lui:
«Codiniccio, caro, lo chiamano a Richieri.»
«Oh, ma quest'è niente!» esclamai. «Me lo posso ritagliare.
Negò prima col dito, poi disse:
«Ti resta sempre il segno, caro, anche se te lo fai radere.»
E questa volta mi piantò lui.


--------------------------------------------------------------------------------

III. Bel modo di essere soli

Desiderai da quel giorno ardentissimamente d'esser solo, almeno per un'ora. Ma veramente, piú che desiderio, era bisogno: bisogno acuto urgente smanioso, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperavano fino alla rabbia.
«Hai sentito, Gengè, che ha detto jeri Michelina? Quantorzo ha da parlarti d'urgenza.»
«Guarda, Gengè, se a tenermi cosí la veste mi paiono le gambe.»
«S'è fermata la pèndola, Gengè.»
«Gengè, e la cagnolina non la porti piú fuori? Poi ti sporca i tappeti e la sgridi. Ma dovrà pure, povera bestiolina... dico... non pretenderai che... Non esce da iersera.»
«Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa esser malata? Non si fa piú vedere da tre giorni, e l'ultima volta le faceva male la gola.»
«È venuto il signor Firbo, Gengè. Dice che ritornerà piú tardi. Non potresti vederlo fuori? Dio, che noioso!»
Oppure la sentivo cantare:

E se mi dici di no,
caro il mio bene, domàn non verrò;
domàn non verrò ...
domàn non verrò....

Ma perché non vi chiudevate in camera, magari con due turaccioli negli orecchi?
Signori, vuol dire che non capite come volevo esser solo.
Chiudermi potevo soltanto nel mio scrittoio, ma anche lí senza poterci mettere il paletto, per non far nascere tristi sospetti in mia moglie ch'era, non dirò trista, ma sospettosissima. E se, aprendo l'uscio all'improvviso, m'avesse scoperto?
No. E poi, sarebbe stato inutile. Nel mio scrittoio non c'erano specchi. Io avevo bisogno d'uno specchio. D'altra parte, il solo pensiero che mia moglie era in casa bastava a tenermi presente a me stesso, e proprio questo io non volevo.
Per voi, esser soli, che vuol dire?
Restare in compagnia di voi stessi, senza alcun estraneo attorno.
Ah sí, v'assicuro ch’è un bel modo, codesto, d'esser soli. Vi s’apre nella memoria una cara finestretta, da cui s’affaccia sorridente, tra un vaso di garofani e un altro di gelsomini, la Titti che lavora all'uncinetto una fascia rossa di lana, oh Dio, come quella che ha al collo quel vecchio insopportabile signor Giacomino, a cui ancora non avete fatto il biglietto di raccomandazione per il presidente della Congregazione di carità, vostro buon amico, ma seccantissimo anche lui, specie se si mette a parlare delle marachelle del suo segretario particolare, il quale jeri... no, quando fu? l'altro jeri che pioveva e pareva un lago la piazza con tutto quel brillío di stille a un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava: basta, vi ficcaste in una sala di bigliardo, dove c'era lui, il segretario del presidente della Congregazione di carità; e che risatine si faceva sotto i baffoni pelosi per la vostra disdetta allorché vi siete messo a giocare con l'amico Carlino detto Qintadecima. E poi? Che avvenne poi, uscendo dalla sala del bigliardo? Sotto un languido fanale, nella via umida deserta, un povero ubriaco malinconico tentava di cantare una vecchia canzonetta di Napoli, che tant'anni fa, quasi tutte le sere udivate cantare in quel borgo montano tra i castagni, ov'eravate andato a villeggiare per star vicino a quella cara Mimí, che poi sposò il vecchio commendator Della Venera, e morí un anno dopo. Oh, cara Mimí! Eccola, eccola a un'altra finestra che vi sapre nella memoria...
Sí, sí, cari miei, v'assicuro che è un bel modo d'esser soli, codesto!


--------------------------------------------------------------------------------

IV. Com’io volevo esser solo

Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt'al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.
Vi sembra già questo un primo segno di pazzia?
Forse perché non riflettete bene.
Poteva già essere in me la pazzia, non nego, ma vi prego di credere che l'unico modo d'esser soli veramente è questo che vi dico io.
La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un'incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l'intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l'estraneo siete voi.
Cosí volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter piú levarmi di torno e ch'ero io stesso: estraneo inseparabile da me.
Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest'uno, o il bisogno che sentivo di restar solo con esso, di mettermelo davanti per conoscerlo bene e conversare un po' con lui, mi turbava tanto, con un senso tra di ribrezzo e di sgomento.
Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto d'essere per me, chi ero io?
Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del mio naso; al taglio, se piccolo o grande, o al colore dei miei occhi; all'angustia o all'ampiezza della mia fronte, e via dicendo. Quello era il mio naso, quelli i miei occhi, quella la mia fronte: cose inseparabili da me, a cui, dedito ai miei affari, preso dalle mie idee, abbandonato ai miei sentimenti, non potevo pensare.
Ma ora pensavo:
"E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. E hanno un pajo d'occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Che relazione c'è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso? Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere."
Cosí, seguitando, sprofondai in quest'altra ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come quello d'un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto.
Io non potevo vedermi vivere.
Potei averne la prova nell'impressione dalla quale fui per cosí dire assaltato, allorché, alcuni giorni dopo, camminando e parlando col mio amico Stefano Firbo, mi accadde di sorprendermi all'improvviso in uno specchio per via, di cui non m'ero prima accorto. Non poté durare piú d'un attimo quell'impressione, ché subito seguí quel tale arresto e finí la spontaneità e cominciò lo studio. Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l'impressione d'un estraneo che passasse per via conversando. Mi fermai. Dovevo esser molto pallido. Firbo mi domandò:
«Che hai?»
«Niente,» dissi. E tra me, invaso da uno strano sgomento ch'era insieme ribrezzo, pensavo:
"Era proprio la mia quell'immagine intravista in un lampo? Sono proprio cosí, io, di fuori, quando – vivendo - non mi penso? Dunque per gli altri sono quell'estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell'uno lí che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell'estraneo che non posso veder vivere se non cosí, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no."
E mi fissai d'allora in poi in questo proposito disperato: d'andare inseguendo quell'estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell'uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io cosí come gli altri lo vedevano e conoscevano.
Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d'esser io per me. Ma presto l'atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch'io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch'esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.
Quando cosí il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie.


--------------------------------------------------------------------------------

V. Inseguimento dell’estraneo

Dirò per ora di quelle piccole che cominciai a fare in forma di pantomime, nella vispa infanzia della mia follia, davanti a tutti gli specchi di casa, guardandomi davanti e dietro per non essere scorto da mia moglie, nell'attesa smaniosa ch'ella, uscendo per qualche visita o compera, mi lasciasse solo finalmente per un buon pezzo.
Non volevo già come un commediante studiar le mie mosse, compormi la faccia all'espressione dei varii sentimenti e moti dell'animo; al contrario: volevo sorprendermi nella naturalezza dei miei atti, nelle subitanee alterazioni del volto per ogni moto dell'animo; per un'improvvisa maraviglia, ad esempio (e sbalzavo per ogni nonnulla le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli e spalancavo gli occhi e la bocca, allungando il volto come se un filo interno me lo tirasse); per un profondo cordoglio (e aggrottavo la fronte, immaginando la morte di mia moglie, e socchiudevo cupamente le pàlpebre quasi a covar quel cordoglio); per una rabbia feroce (e digrignavo i denti, pensando che qualcuno m'avesse schiaffeggiato, e arricciavo il naso, stirando la mandibola e fulminando con lo sguardo).
Ma, prima di tutto, quella maraviglia, quel cordoglio, quella rabbia erano finte, e non potevano esser vere, perché, se vere, non avrei potuto vederle, ché subito sarebbero cessate per il solo fatto ch'io le vedevo; in secondo luogo, le maraviglie da cui potevo esser preso erano tante e diversissime, e imprevedibili anche le espressioni, senza fine variabili anche secondo i momenti e le condizioni del mio animo; e cosí per tutti i cordogli e cosí per tutte le rabbie. E infine, anche ammesso che per una sola e determinata maraviglia, per un solo e determinato cordoglio, per una sola e determinata rabbia io avessi veramente assunto quelle espressioni, esse erano come le vedevo io, non già come le avrebbero vedute gli altri. L'espressione di quella mia rabbia, ad esempio, non sarebbe stata la stessa per uno che l'avesse temuta, per un altro disposto a scusarla, per un terzo disposto a riderne, e cosí via.
Ah! tanto bel senno avevo ancora per intendere tutto questo, e non poté servirmi a tirare dalla riconosciuta inattuabilità di quel mio folle proposito la conseguenza naturale di rinunciare all'impresa disperata e starmi contento a vivere per me, senza vedermi e senza darmi pensiero degli altri.
L'idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un "mio" dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest'idea non mi diede piú requie.
Come sopportare in me quest'estraneo? quest'estraneo che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?


--------------------------------------------------------------------------------

VI. Finalmente

«Sai che ti dico, Gengè? Sono passati altri quattro giorni. Non c'è piú dubbio: Anna Rosa dev'esser malata. Andrò io a vederla.»
«Dida mia, che fai? Ma ti pare! Con questo tempaccio? Manda Diego; manda Nina a domandar notizie. Vuoi rischiare di prendere un malanno? Non voglio, non voglio assolutamente.»
Quando voi non volete assolutamente una cosa, che fa vostra moglie?
Dida, mia moglie, si piantò il cappellino in capo. Poi mi porse la pelliccia perché gliela reggessi.
Gongolai. Ma Dida scorse nello specchio il mio sorriso.
«Ah, ridi?»
«Cara, mi vedo obbedito cosí...»
E allora la pregai che, almeno, non si trattenesse tanto dalla sua amichetta, se davvero era ammalata di gola:
«Un quarto d'ora, non piú. Te ne scongiuro.»
M'assicurai cosí che fino a sera non sarebbe rincasata.
Appena uscita, mi girai dalla gioja su un calcagno, stropicciandomi le mani.
«Finalmente!»


--------------------------------------------------------------------------------

VII. Filo d’aria

Prima volli ricompormi, aspettare che mi scomparisse dal volto ogni traccia d'ansia e di gioja e che, dentro, mi s’arrestasse ogni moto di sentimento e di pensiero, cosí che potessi condurre davanti allo specchio il mio corpo come estraneo a me e, come tale, pormelo davanti.
«Su,» dissi, «andiamo!»
Andai, con gli occhi chiusi, le mani avanti, a tentoni. Quando toccai la lastra dell'armadio, ristetti ad aspettare, ancora con gli occhi chiusi, la piú assoluta calma interiore, la piú assoluta indifferenza.
Ma una maledetta voce mi diceva dentro, che era là anche lui, l'estraneo, di fronte a me, nello specchio. In attesa come me, con gli occhi chiusi.
C'era, e io non lo vedevo.
Non mi vedeva neanche lui, perché aveva, come me, gli occhi chiusi. Ma in attesa di che, lui? Di vedermi? No. Egli poteva esser veduto, non vedermi. Era per me quel che io ero per gli altri, che potevo esser veduto e non vedermi. Aprendo gli occhi però, lo avrei veduto cosí come un altro?
Qui era il punto.
M'era accaduto tante volte d'infrontar gli occhi per caso nello specchio con qualcuno che stava a guardarmi nello specchio stesso. Io nello specchio non mi vedevo ed ero veduto; cosí l'altro, non si vedeva, ma vedeva il mio viso e si vedeva guardato da me. Se mi fossi sporto a vedermi anch’io nello specchio, avrei forse potuto esser visto ancora dall'altro, ma io no, non avrei piú potuto vederlo. Non si può a un tempo vedersi e vedere che un altro sta a guardarci nello stesso specchio.
Stando a pensare cosí, sempre con gli occhi chiusi, mi domandai:
«È diverso ora il mio caso, o è lo stesso? Finché tengo gli occhi chiusi, siamo due: io qua e lui nello specchio. Debbo impedire che, aprendo gli occhi, egli diventi me e io lui. Io debbo vederlo e non essere veduto. È possibile? Subito com'io lo vedrò, egli mi vedrà, e ci riconosceremo. Ma grazie tante! Io non voglio riconoscermi; io voglio conoscere lui fuori di me. È possibile? Il mio sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d'essere veduto da me, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: quell'altro che tutti vedono e io no. Su, dunque, calma, arresto d'ogni vita e attenzione!
Aprii gli occhi. Che vidi?
Niente. Mi vidi. Ero io, là, aggrondato, carico del mio stesso pensiero, con un viso molto disgustato.
M'assalí una fierissima stizza e mi sorse la tentazione di tirarmi uno sputo in faccia. Mi trattenni. Spianai le rughe; cercai di smorzare l'acume dello sguardo; ed ecco, a mano a mano che lo smorzavo, la mia immagine smoriva e quasi sallontanava da me; ma smorivo anch’io di qua e quasi cascavo; e sentii che, seguitando, mi sarei addormentato. Mi tenni con gli occhi. Cercai d'impedire che mi sentissi anch’io tenuto da quegli occhi che mi stavano di fronte; che quegli occhi, cioè, entrassero nei miei. Non vi riuscii. Io mi sentivo quegli occhi. Me li vedevo di fronte, ma li sentivo anche di qua, in me; li sentivo miei; non già fissi su me, ma in se stessi. E se per poco riuscivo a non sentirmeli, non li vedevo piú. Ahimè, era proprio cosí: io potevo vedermeli, non già vederli.
Ed ecco: come compreso di questa verità che riduceva a un giuoco il mio esperimento, a un tratto il mio volto tentò nello specchio uno squallido sorriso.
«Sta' serio, imbecille!» gli gridai allora. «Non c'è niente da ridere!»
Fu cosí istantaneo, per la spontaneità della stizza, il cangiamento dell'espressione nella mia immagine, e cosí subito seguí a questo cambiamento un'attonita apatia in essa, ch’io riuscii a vedere staccato dal mio spirito imperioso il mio corpo, là, davanti a me, nello specchio.
Ah, finalmente! Eccolo là!
Chi era?
Niente era. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in attesa che qualcuno se lo prendesse.
«Moscarda...» mormorai, dopo un lungo silenzio.
Non si mosse; rimase a guardarmi attonito.
Poteva anche chiamarsi altrimenti.
Era là, come un cane sperduto, senza padrone e senza nome, che uno poteva chiamar Flik, e un altro Flok, a piacere. Non conosceva nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore, e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le palpebre, e non se n'accorgeva.
Gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile, dura, pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi forati qua e là nella còrnea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; quel naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio aquilino; i baffi rossicci che nascondevano la bocca; il mento solido, un po' rilevato:
Ecco: era cosí: lo avevano fatto cosí, di quel pelame; non dipendeva da lui essere altrimenti, avere un'altra statura, poteva sí alterare in parte il suo aspetto: radersi quei baffi, per esempio, ma adesso era cosí; col tempo sarebbe stato calvo o canuto, rugoso e floscio, sdentato; qualche sciagura avrebbe potuto anche svisarlo, fargli un occhio di vetro o una gamba di legno; ma adesso era cosí.
Chi era? Ero io? Ma poteva anche essere un altro! Chiunque poteva essere, quello lí. Poteva avere quei capelli rossigni, quelle sopracciglia ad accento circonflesso e quel naso che pendeva verso destra, non soltanto per me, ma anche per un altro che non fossi io. Perché dovevo esser io, questo, cosí?
Vivendo, io non rappresentavo a me stesso nessuna immagine di me. Perché dovevo dunque vedermi in quel corpo lí come in un'immagine di me necessaria?
Mi stava lí davanti, quasi inesistente, come un'apparizione di sogno, quell'immagine. E io potevo benissimo non conoscermi cosí. Se non mi fossi mai veduto in uno specchio, per esempio? Non avrei forse per questo seguitato ad avere dentro quella testa lí sconosciuta i miei stessi pensieri? Ma sí, e tant'altri. Che avevano da vedere i miei pensieri con quei capelli, di quel colore, i quali avrebbero potuto non esserci piú o essere bianchi o neri o biondi; e con quegli occhi lí verdastri, che avrebbero potuto anche essere neri o azzurri; e con quel naso che avrebbe potuto essere diritto o camuso? Potevo benissimo sentire anche una profonda antipatia per quel corpo lí; e la sentivo.
Eppure, io ero per tutti, sommariamente, quei capelli rossigni, quegli occhi verdastri e quel naso; tutto quel corpo lí che per me era niente; eccolo: niente! Ciascuno se lo poteva prendere, quel corpo lí, per farsene quel Moscarda che gli pareva e piaceva, oggi in un modo e domani in un altro, secondo i casi e gli umori. E anch'io... Ma sí! Lo conoscevo io forse? Che potevo conoscere di lui? Il momento in cui lo fissavo, e basta. Se non mi volevo o non mi sentivo cosí come mi vedevo, colui era anche per me un estraneo, che aveva quelle fattezze, ma avrebbe potuto averne anche altre. Passato il momento in cui lo fissavo, egli era già un altro; tanto vero che non era piú qual era stato da ragazzo, e non era ancora quale sarebbe stato da vecchio; e io oggi cercavo di riconoscerlo in quello di jeri, e cosí via. E in quella testa lí, immobile e dura, potevo mettere tutti i pensieri che volevo, accendere le piú svariate visioni: ecco: d'un bosco che nereggiava placido e misterioso sotto il lume delle stelle; di una rada solitaria, malata di nebbia, da cui salpava lenta spettrale una nave all'alba; d'una via cittadina brulicante di vita sotto un nembo sfolgorante di sole che accendeva di riflessi purpurei i volti e faceva guizzar di luci variopinte i vetri delle finestre, gli specchi, i cristalli delle botteghe. Spengevo a un tratto la visione, e quella testa restava lí di nuovo immobile e dura nell'apatico attonimento.
Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.
Ma, all'improvviso, mentre cosí pensavo, avvenne tal cosa che mi riempí di spavento più che di stupore.
Vidi davanti a me, non per mia volontà, l’apatica attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente, arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all'indietro, contrarre le labbra in su e provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare cosí un attimo sospeso e poi crollar due volte a scatto per lo scoppio d'una coppia di sternuti.
S’era commosso da sé, per conto suo, a un filo d'aria entrato chi sa donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori della mia volontà.
«Salute!» gli dissi.
E guardai nello specchio il mio primo riso da matto.


--------------------------------------------------------------------------------

VIII. E dunque?

Dunque, niente: questo. Se vi par poco! Ecco una prima lista delle riflessioni rovinose e delle terribili conclusioni derivate dall'innocente momentaneo piacere che Dida mia moglie aveva voluto prendersi. Dico, di farmi notare che il naso mi pendeva verso destra.

Riflessioni:

1a - che io non ero per gli altri quel che finora avevo creduto di essere per me;
2a - che non potevo vedermi vivere;
3a - che non potendo vedermi vivere, restavo estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere; ciascuno a suo modo; e io no;
4a - che era impossibile pormi davanti questo estraneo per vederlo e conoscerlo; io potevo vedermi, non già vederlo;
5a - che il mio corpo, se io considerato da fuori, era per me come un’apparizione di sogno, una cosa che non sapeva di vivere e che restava lí, in attesa che qualcuno se la prendesse;
6a - che, come me lo prendevo io, questo mio corpo, per essere a volta a volta quale mi volevo e mi sentivo, cosí se lo poteva prendere qualunque altro per dargli una realtà a modo suo;
7a - che infine quel corpo per se stesso era tanto niente e tanto nessuno, che un filo d'aria poteva farlo starnutire, oggi, e domani portarselo via.

Conclusioni:

Queste due per il momento:
1a - che cominciai finalmente a capire perché Dida mia moglie mi chiamava Gengè;
2a - che mi proposi di scoprire chi ero io almeno per quelli che mi stavano piú vicini, cosí detti conoscenti, e di spassarmi a scomporre dispettosamente quell'io che ero per loro.
 
Top
camillamencarelli
view post Posted on 15/5/2005, 13:45




LIBRO SECONDO

I. Ci sono io e ci siete voi

Mi si può opporre:
«Ma come mai non ti venne in mente, povero Moscarda, che a tutti gli altri avveniva come a te, di non vedersi vivere; e che se tu non eri per gli altri quale finora t'eri creduto, allo stesso modo gli altri potevano non essere quali tu li vedevi?»
Rispondo:
Mi venne in mente. Ma scusate, è proprio vero che sia venuto in mente anche a voi?
Ho voluto supporlo, ma non ci credo. Io credo anzi che se in realtà un tal pensiero vi venisse in mente e vi si radicasse come si radicò in me, ciascuno di voi commetterebbe le stesse pazzie che commisi io.
Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché dell'altrui giudizio non v'importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi vi rappresentate.
Che se poi qualcuno vi fa notare che il naso vi pende un pochino verso destra... no? che jeri avete detto una bugia... nemmeno? piccola piccola, via, senza conseguenze... Insomma, se qualche volta appena appena avvertite di non essere per gli altri quello stesso che per voi; che fate? (Siate sinceri). Nulla fate, o ben poco. Ritenete al piú al piú, con bella e intera sicurezza di voi stessi, che gli altri vi hanno mal compreso, mal giudicato; e basta. Se vi preme, cercherete magari di raddrizzare quel giudizio, dando schiarimenti, spiegazioni; se non vi preme, lascerete correre, scrollerete le spalle esclamando: "Oh infine, ho la mia coscienza e mi basta."
Non è cosí?
Signori miei, scusate. Poiché vi è venuta in bocca una cosí grossa parola, permettete ch'io vi faccia entrare in mente un magro magro pensiero. Questo: che la vostra coscienza, qua, non ci ha che vedere. Non vi dirò che non val nulla, se per voi è proprio tutto; dirò, per farvi piacere, che allo stesso modo ho anch'io la mia e so che non val nulla. Sapete perché? Perché so che c'è anche la vostra. Ma sí. Tanto diversa dalla mia.
Scusatemi se parlo un momento a modo dei filosofi. Ma è forse la coscienza qualcosa d'assoluto che possa bastare a se stessa? Se fossimo soli, forse sí. Ma allora, belli miei, non ci sarebbe coscienza. Purtroppo, ci sono io, e ci siete voi. Purtroppo.
E che vuol dunque dire che avete la vostra coscienza e che vi basta? Che gli altri possono pensare di voi e giudicarvi come piace a loro, cioè ingiustamente, ché voi siete intanto sicuro e confortato di non aver fatto male?
Oh di grazia, e se non sono gli altri, chi ve la dà codesta sicurezza? codesto conforto chi ve lo dà?
Voi stesso? E come?
Ah, io lo so, come: ostinandovi a credere che se gli altri fossero stati al vostro posto e fosse loro capitato il vostro stesso caso, tutti avrebbero agito come voi, né piú né meno.
Bravo! Ma su che lo affermate?
Eh, so anche questo: su certi principii astratti e generali, in cui, astrattamente e generalmente, vuol dire fuori dei casi concreti e particolari della vita, si può essere tutti d'accordo (costa poco).
Ma come va che tutti intanto vi condannano o non vi approvano o anche vi deridono? é chiaro che non sanno riconoscere, come voi, quei principii generali nel caso particolare che v'è capitato, e se stessi nell'azione che avete commessa.
O a che vi basta dunque la coscienza? A sentirvi solo? No, perdio. La solitudine vi spaventa. E che fate allora? V'immaginate tante teste. Tutte come la vostra. Tante teste che sono anzi la vostra stessa. Le quali a un dato cenno, tirate da voi come per un filo invisibile, vi dicono sí e no, e no e sí; come volete voi. E questo vi conforta e vi fa sicuri. Andate là che è un giuoco magnifico, codesto della vostra coscienza che vi basta.


--------------------------------------------------------------------------------

II. E allora?

Sapete invece su che poggia tutto? Ve lo dico io. Su una presunzione che Dio vi conservi sempre. La presunzione che la realtà, qual'è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri.
Ci vivete dentro; ci camminate fuori, sicuri. La vedete, la toccate; e dentro anche, se vi piace, ci fumate un sigaro (la pipa? la pipa), e beatamente state a guardare le spire di fumo a poco a poco vanire nell'aria. Senza il minimo sospetto che tutta la realtà che vi sta attorno non ha per gli altri maggiore consistenza di quel fumo.
Dite di no? Guardate. Io abitavo con mia moglie la casa che mio padre s’era fatta costruire dopo la morte immatura di mia madre, per levarsi da quella dov'era vissuto con lei, piena di cocentissimi ricordi. Ero allora ragazzo, e soltanto piú tardi potei rendermi conto che proprio all'ultimo quella casa era stata lasciata da mio padre non finita e quasi aperta a chiunque volesse entrarvi.
Quell'arco di porta senza la porta che supera di tutta la cèntina da una parte e dall'altra i muri di cinta della vasta corte davanti, non finiti; con la soglia sotto distrutta e scortecciati agli spigoli i pilastri; mi fa ora pensare che mio padre lo lasciò cosí quasi in aria e vuoto, forse perché pensò che la casa, dopo la sua morte, doveva restare a me, vale a dire a tutti e a nessuno; e che le fosse inutile perciò il riparo d'una porta.
Finché visse mio padre, nessuno s’attentò a entrare in quella corte. Erano rimaste per terra tante pietre intagliate; e chi passava, vedendole, poté dapprima pensare che la fabbrica, per poco interrotta, sarebbe stata presto ripresa. Ma appena l'erba cominciò a crescere tra i ciottoli e lungo i muri, quelle pietre inutili sembrarono subito come crollate e vecchie. Col tempo, morto mio padre, divennero i sedili delle comari del vicinato, le quali, titubanti in principio, ora l'una ora l'altra, s’arrischiarono a varcare la soglia, come in cerca d'un posto riparato dove ci si potesse mettere seduti bene all'ombra e in silenzio; e poi, visto che nessuno diceva nulla, lasciarono alle loro galline la titubanza ancora per poco, e presero a considerare quella corte come loro, come loro l'acqua della cisterna che vi sorgeva in mezzo; e vi lavavano e vi stendevano i panni ad asciugare; e infine, col sole che abbarbagliava allegro da tutto quel bianco di lenzuoli e di camice svolazzanti dai cordini tesi, si scioglievano sulle spalle i capelli lustri d'olio per "cercarsi" in capo, come fanno le scimmie tra loro.
Non diedi mai a vedere né fastidio né piacere di quella loro invasione, benché m'irritasse specialmente la vista d'una vecchina sempre pigolante, dagli occhi risecchi e la gobba dietro ben segnata da un giubbino verde scolorito, e mi désse allo stomaco una lezzona grassa squarciata, con un'orrenda cioccia sempre fuori del busto e in grembo un bimbo sudicio dalla testa grossa schifosamente piena di croste di lattime tra la peluria rossiccia. Mia moglie aveva forse il suo tornaconto a lasciarle lí, perché se ne serviva a un bisogno, dando poi loro in compenso o gli avanzi di cucina o qualche abito smesso.
Acciottolata come la strada, questa corte è tutta in pendío. Mi rivedo ragazzo, uscito per le vacanze dal collegio, affacciato di sera tardi a uno dei balconi della casa allora nuova. Che pena infinita mi dava il vasto biancore illividito di tutti quei ciottoli in pendío con quella grande cisterna in mezzo, misteriosamente sonora! La ruggine s’era quasi mangiata fin d'allora la vernice rossigna del gambo di ferro che in cima regge la carrucola dove scorre la fune della secchia; e come mi sembrava triste quello sbiadito color di vernice su quel gambo di ferro che ne pareva malato! Malato forsanche per la malinconia dei cigolíi della carrucola quando il vento, di notte, moveva la fune; e su la corte deserta era la chiarità del cielo stellato ma velato, che in quella chiarità vana, di polvere, sembrava fissato là sopra, per sempre.
Dopo la morte di mio padre, Quantorzo, incaricato di badare ai miei affari, pensò di chiudere con un tramezzo le stanze che mio padre s’era riservate per sua abitazione e di farne un quartjerino da affittare. Mia moglie non s’era opposta. E in quel quartjerino era venuto, poco dopo, ad abitare un vecchio silenziosissimo pensionato, sempre vestito bene, di pulita semplicità, piccolino ma con un che di marziale nell'esile personcina impettorita e anche nella faccina energica, sebbene un po' sciupata, da colonnello a riposo. Di qua e di là, come scritti calligraficamente, aveva due esemplari occhi di pesce, e tutte segnate le guance d'una fitta trama di venuzze violette.
Non avevo mai badato a lui, né m'ero curato di sapere chi fosse, come vivesse. Parecchie volte lo avevo incontrato per le scale, e sentendomi dire con molto garbo: "Buon giorno" o "Buona sera", senz'altro m'ero fatta l'idea che quel mio vicino di casa fosse molto garbato.
Nessun sospetto mi aveva destato un suo lamento per le zanzare che lo molestavano la notte e che, a suo credere, provenivano dai grandi magazzini a destra della casa ridotti da Quantorzo, sempre dopo la morte di mio padre, a sudice rimesse d'affitto.
«Ah, già!» avevo esclamato, quella volta, in risposta al suo lamento.
Ma ricordo perfettamente che in quella mia esclamazione c'era il dispiacere, non già delle zanzare che molestavano il mio inquilino, ma di quegli ariosi puliti magazzini che da ragazzo avevo veduto costruire e dove correvo, stranamente esaltato dalla bianchezza abbarbagliante dell'intonaco e come ubriacato dall'umido della fabbrica fresca, sul mattonato rintronante, ancora tutto spruzzato di calce. Al sole ch’entrava dalle grandi finestre ferrate, bisognava chiudere gli occhi da come quei muri accecavano.
Tuttavia, quelle rimesse con quei vecchi landò d'affitto, con l'attacco a tre, per quanto impregnate di tutto il lezzo delle lettiere marcite e del nero delle risciacquature che stagnava lí davanti, mi facevano anche pensare all'allegria delle corse in carrozza, da ragazzo, quando si andava in villeggiatura, per lo stradone, tra le campagne aperte che mi parevano fatte per accogliere e diffondere la festività delle sonagliere. E in grazia di quel ricordo mi pareva si potesse sopportare la vicinanza delle rimesse; tanto piú che, anche senza questa vicinanza, era noto a tutti che a Richieri si soffriva il fastidio delle zanzare, da cui comunemente in ogni casa ci si difendeva con l'uso delle zanzariere.
Chi sa che impressione dovette fare al mio vicino di casa la vista d'un sorriso sulle mie labbra, quando egli con la faccina fiera mi gridò che non aveva mai potuto sopportare le zanzariere, perché se ne sentiva soffocare. Quel mio sorriso esprimeva di certo maraviglia e compatimento. Non poter sopportare la zanzariera, ch’io avrei seguitato sempre a usare anche se tutte le zanzare fossero sparite da Richieri, per la delizia che mi dava, tenuta alta di cielo com'io la tenevo e drizzata tutt'intorno al letto senza una piega. La camera che si vede e non si vede traverso a quella miriade di forellini del tulle lieve; il letto isolato; l'impressione d'esser come avvolto in una bianca nuvola.
Non mi feci caso di ciò che egli potesse pensare di me dopo quell'incontro. Seguitai a vederlo per le scale, e sentendomi dire come prima "Buon giorno" o "Buona sera", rimasi con l'idea ch’egli fosse molto garbato.
Vi assicuro invece ch'egli, nello stesso momento che fuori garbatamente mi diceva per le scale "Buon giorno" o "Buona sera", dentro di sé mi faceva vivere come un perfetto imbecille perché là nella corte tolleravo quell'invasione di comari e quel puzzo ardente di lavatoio e le zanzare.
Chiaro che non avrei piú pensato: "Oh Dio com'è garbato il mio vicino di casa, se avessi potuto vedermi dentro di lui che, viceversa, mi vedeva com'io non avrei potuto vedermi mai, voglio dire da fuori, per me, ma dentro la visione che anche lui aveva poi per suo conto delle cose e degli uomini, e nella quale mi faceva vivere a suo modo: da perfetto imbecille. Non lo sapevo e seguitavo a pensare: "Oh Dio com'è garbato il mio vicino di casa".


--------------------------------------------------------------------------------

III. Con permesso

Picchio all'uscio della vostra stanza.
State, state pure sdraiato comodamente su la vostra greppina. Io seggo qua. Dite di no?
«Perché?»
Ah, è la poltrona su cui, tant'anni or sono, morí la vostra povera mamma. Scusate, non avrei dato un soldo per essa, mentre voi non la vendereste per tutto l'oro del mondo, lo credo bene. Chi la vede, intanto, nella vostra stanza cosí ben mobigliata, certo, non sapendo, si domanda con maraviglia come la possiate tenere qua, vecchia scolorita e strappata com'è.
Queste sono le vostre seggiole. E questo è un tavolino, che piú tavolino di cosí non potrebbe essere. Quella è una finestra che dà sul giardino. E là fuori, quei pini, quei cipressi.
Lo so. Ore deliziose passate in questa stanza che vi par tanto bella, con quei cipressi che si vedono là. Ma per essa intanto vi siete guastato con l'amico che prima veniva a visitarvi quasi ogni giorno e ora non solo non viene piú ma va dicendo a tutti che siete pazzo, proprio pazzo ad abitare in una casa come questa.
«Con tutti quei cipressi lí davanti in fila,» va dicendo. «Signori miei, piú di venti cipressi, che pare un camposanto.»
Non se ne sa dar pace.
Voi socchiudete gli occhi; vi stringete nelle spalle; sospirate:
«Gusti.»
Perché vi pare che sia propriamente questione di gusti, o d'opinioni, o d'abitudine; e non dubitate minimamente della realtà delle care cose, quale con piacere ora la vedete e la toccate.
Andate via da codesta casa; ripassate fra tre o quattr'anni a rivederla con un altro animo da questo d'oggi; vedrete che ne sarà piú di codesta cara realtà.
«Uh guarda, questa la stanza? questo il giardino?»
E speriamo per amor di Dio, che non vi sia morto qualche altro parente prossimo, perché vediate anche voi come un camposanto tutti quei cari cipressi là.
Ora dite che questo si sa, che l'animo muta e che ciascuno può sbagliare.
Già storia vecchia, difatti.
Ma io non ho la pretesa di dirvi niente di nuovo. Solo vi domando:
«E perché allora, santo Dio, fate come se non si sapesse? Perché seguitate a credere che la sola realtà sia la vostra, questa d'oggi, e vi maravigliate, vi stizzite, gridate che sbaglia il vostro amico, il quale, per quanto faccia, non potrà mai avere in sé, poverino, lo stesso animo vostro?


--------------------------------------------------------------------------------

IV. Scusate ancora

Lasciatemi dire un'altra cosa, e poi basta.
Non voglio offendervi. La vostra coscienza, voi dite. Non volete che sia messa in dubbio. Me n'ero scordato, scusate. Ma riconosco, riconosco che per voi stesso, dentro di voi, non siete quale io, di fuori, vi vedo. Non per cattiva volontà. Vorrei che foste almeno persuaso di questo. Voi vi conoscete, vi sentite, vi volete in un modo che non è il mio, ma il vostro; e credete ancora una volta che il vostro sia giusto e il mio sbagliato. Sarà, non nego. Ma può il vostro modo essere il mio e viceversa?
Ecco che torniamo daccapo!
Io posso credere a tutto ciò che voi mi dite. Ci credo. Vi offro una sedia: sedete; e vediamo di metterci d'accordo.
Dopo una buona oretta di conversazione, ci siamo intesi perfettamente.
Domani mi venite con le mani in faccia, gridando:
«Ma come? Che avete inteso? Non mi avevate detto cosí e cosí?»
Cosí e cosí, perfettamente. Ma il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci, non ci siamo intesi affatto.
Eh, storia vecchia anche questa, si sa. E io non pretendo dir niente di nuovo. Solo torno a domandarvi:
«Ma perché allora, santo Dio, seguitate a fare come se non si sapesse? A parlarmi di voi, se sapete che per essere per me quale siete per voi stesso, e io per voi quale sono per me, ci vorrebbe che io, dentro di me, vi déssi quella stessa realtà che voi vi date, e viceversa; e questo non è possibile?»
Ahimè, caro, per quanto facciate, voi mi darete sempre una realtà a modo vostro, anche credendo in buona fede che sia a modo mio; e sarà, non dico; magari sarà; ma a un "modo mio" che io non so né potrò mai sapere; che saprete soltanto voi che mi vedete da fuori: dunque un "modo mio" per voi, non un "modo mio" per me.
Ci fosse fuori di noi, per voi e per me, ci fosse una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse, e uguali, immutabili. Non c'è. C'è in me e per me una realtà mia: quella che io mi do; una realtà vostra in voi e per voi: quella che voi vi date; le quali non saranno mai le stesse né per voi né per me.
E allora?
Allora, amico mio, bisogna consolarci con questo: che non è piú vera la mia che la vostra, e che durano un momento cosí la vostra come la mia.
Vi gira un po' il capo? Dunque dunque... concludiamo.


--------------------------------------------------------------------------------

V. Fissazioni

Ecco, dunque, volevo venire a questo, che non dovete dirlo piú, non lo dovete dire che avete la vostra coscienza e che vi basta.
Quando avete agito cosí? Jeri, oggi, un minuto fa? E ora? Ah, ora voi stesso siete disposto ad ammettere che forse avreste agito altrimenti. E perché? Oh Dio, voi impallidite. Riconoscete forse anche voi ora, che un minuto fa voi eravate un altro.
Ma sí, ma sí, mio caro, pensateci bene: un minuto fa, prima che vi capitasse questo caso, voi eravate un altro; non solo, ma voi eravate anche cento altri, centomila altri. E non c'è da farne, credete a me, nessuna maraviglia. Vedete piuttosto se vi sembra di poter essere cosí sicuro che di qui a domani sarete quel che assumete di essere oggi.
Caro mio, la verità è questa: che sono tutte fissazioni. Oggi vi fissate un un modo e domani in un altro.
Vi dirò poi come e perché.


--------------------------------------------------------------------------------

VI. Anzi ve lo dico adesso

Avete mai veduto costruire una casa? Io, tante, qua a Richieri. E ho pensato:
"Ma guarda un po' l'uomo, che è capace di fare! Mutila la montagna; ne cava pietre; le squadra; le dispone le une sulle altre e, che è che non è, quello che era un pezzo di montagna è diventato una casa."
«Io» dice la montagna «sono montagna e non mi muovo.»
Non ti muovi, cara? E guarda là quei carri tirati da buoi. Sono carichi di te, di pietre tue. Ti portano in carretta, cara mia! Credi di startene costí? E già mezza sei due miglia lontano, nella pianura. Dove? Ma in quelle case là, non ti vedi? una gialla, una rossa, una bianca; a due, a tre, a quattro piani.
E i tuoi faggi, i tuoi noci, i tuoi abeti?
Eccoli qua, a casa mia. Vedi come li abbiamo lavorati bene? Chi li riconoscerebbe piú in queste sedie, in questi armadi; in questi scaffali?
Tu montagna. sei tanto piú grande dell'uomo; anche tu faggio, e tu noce e tu abete; ma l'uomo è una bestiolina piccola, sí, che ha però in sé qualche cosa che voi non avete.
A star sempre in piedi, vale a dire ritta su due zampe soltanto, si stancava; a sdraiarsi per terra come le altre bestie non stava comoda e si faceva male, anche perché, perduto il pelo, la pelle eh! la pelle le è diventata piú fina. Vide allora l'albero e pensò che se ne poteva trar fuori qualche cosa per sedere piú comodamente. E poi sentí che non era comodo neppure il legno nudo e lo imbottí; scorticò le bestie soggette, altre ne tosò e vestí il legno di cuoio e tra il cuoio e il legno mise la lana; ci si sdraiò sopra, beato:
«Ah, come si sta bene cosí!»
Il cardellino canta nella gabbietta sospesa tra le tende al palchetto della finestra. Sente forse la primavera che s’approssima? Ahimè, forse la sente anch’esso l'antico ramo del noce da cui fu tratta la mia seggiola, che al canto del cardellino ora scrícchiola.
Forse s’intendono, con quel canto e con questo scricchiolío, l'uccello imprigionato e il noce ridotto seggiola.


--------------------------------------------------------------------------------

VII. Che c’entra la casa?

Pare a voi che non c'entri questo discorso della casa, perché adesso la vedete come è, la vostra casa, tra le altre che formano la città. Vi vedete attorno i vostri mobili che sono quali voi secondo il vostro gusto e i vostri mezzi li avete voluti per i comodi vostri. Ed essi vi spirano attorno il dolce conforto familiare, animati come sono da tutti i vostri ricordi; non piú cose, ma quasi intime parti di voi stessi, nelle quali potete toccarla e sentirla quella che vi sembra la realtà sicura della vostra esistenza.
Siano di faggio o di noce o d'abete, i vostri mobili sono, come i ricordi della vostra intimità domestica, insaporati di quel particolare alito che cova in ogni casa e che dà alla nostra vita quasi un odore che piú s’avverte quando ci vien meno, appena cioè, entrando in un'altra casa, vi avvertiamo un alito diverso. E vi secca, lo vedo, ch’io v'abbia richiamato ai faggi, ai noci, agli abeti della montagna.
Come se già cominciaste a compenetrarvi un poco della mia pazzia, subito, d'ogni cosa che vi dico, vi adombrate; domandate:
«Perché? Che c'entra questo?»


--------------------------------------------------------------------------------

VIII. Fuori all’aperto

No, via, non abbiate paura che vi guasti i mobili, la pace, l'amore della casa.
Aria! aria! Lasciamo la casa, lasciamo la città. Non dico che possiate fidarvi molto di me; ma, via, non temete. Fin dove la strada con quelle case sbocca nella campagna potete seguirmi.
Sí, strada, questa. Temete sul serio che possa dirvi di no? Strada strada. Strada brecciata; e attenti alle scaglie. E quelli sono fanali. Venite avanti sicuri.
Ah, quei monti azzurri lontani! Dico azzurri ; anche voi dite azzurri, non è vero? D'accordo. E questo qua vicino, col bosco di castagni: castagni, no? vedete, vedete come c'intendiamo? della famiglia delle cupulifere, d'alto fusto. Castagno marrone. Che vasta pianura davanti ("verde" eh? per voi e per me "verde": diciamo cosí, che c'intendiamo a maraviglia); e in quei prati là, guardate guardate che bruciare di rossi papaveri al sole! - Ah, come? cappottini rossi di bimbi? - Già, che cieco! Cappottini di lana rossa, avete ragione. M'eran sembrati papaveri. E codesta vostra cravatta pure rossa... Che gioja in questa vana frescura, azzurra e verde, d'aria chiara di sole! Vi levate il cappellaccio grigio di feltro? Siete già sudato? Eh, bello grasso, voi, Dio vi benedica! Se vedeste i quadratini bianchi e neri dei calzoni sul vostro deretano... Giú, giú la giacca! Pare troppo.
La campagna! Che altra pace, eh? Vi sentite sciogliere. Sí ma se mi sapeste dire dov'è? Dico la pace. No, non temete non temete! Vi sembra propriamente che ci sia pace qua? Intendiamoci, per carità! Non rompiamo il nostro perfetto accordo. Io qua vedo soltanto, con licenza vostra, ciò che avverto in me in questo momento, un'immensa stupidità, che rende la vostra faccia, e certo anche la mia, di beati idioti, ma che noi pure attribuiamo alla terra e alle piante, le quali ci sembra che vivano per vivere, cosí soltanto come in questa stupidità possono vivere.
Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace. Non vi pare? E sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti or ora dalla città; cioè, sí, da un mondo costruito: case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive piú cosí per vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensí per qualche cosa che non c'è e che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un valore che qua almeno in parte, riuscite a perdere, o di cui riconoscete l'affliggente vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia.
Capisco, capisco. Rilascio di nervi. Accorato bisogno d'abbandonarvi. Vi sentite sciogliere, vi abbandonate.


--------------------------------------------------------------------------------

IX. Nuvole e vento

Ah, non aver piú coscienza d'essere, come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi piú neanche del proprio nome! Sdraiati qua sull'erba, con le mani intrecciate alla nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole; udire il vento che fa lassú, tra i castagni del bosco, come un fragor di mare.
Nuvole e vento.
Che avete detto? Ahimè, ahimè. Nuvole? Vento? E non vi sembra già tutto, avvertire e riconoscere che quelle che veleggiano luminose per la sterminata azzurra vacuità sono nuvole? Sa forse d'essere la nuvola? Né sanno di lei l'albero e la pietra, che ignorano anche se stessi; e sono soli.
Avvertendo e riconoscendo la nuvola, voi potete, cari miei, pensare anche alla vicenda dell'acqua (e perché no) che divien nuvola per divenir poi acqua di nuovo. Bella cosa, sí. E basta a spiegarvi questa vicenda un povero professoruccio di fisica. Ma a spiegarvi il perché del perché?


--------------------------------------------------------------------------------

X. L’uccellino

Sentite, sentite: su nel bosco dei castagni, picchi d'accetta. Giú nella cava, picchi di piccone.
Mutilare la montagna, atterrare alberi per costruire case. Là, nella vecchia città, altre case. Stenti, affanni, fatiche d'ogni sorta; perché? Ma per arrivare a un comignolo, signori miei; e per fare uscir poi da questo comignolo un po' di fumo, subito disperso nella vanità dello spazio.
E come quel fumo, ogni pensiero, ogni memoria degli uomini.
Siamo in campagna qua; il languore ci ha sciolto le membra; è naturale che illusioni e disinganni, dolori e gioie, speranze e desiderii ci appaiano vani e transitorii, di fronte al sentimento che spira dalle cose che restano e sopravanzano ad essi, impassibili. Basta guardare là quelle alte montagne oltre valle, lontane lontane, sfumanti all'orizzonte, lievi nel tramonto, entro rosei vapori.
Ecco: sdraiato, voi buttate all'aria il cappellaccio di feltro: diventate quasi tragico; esclamate:
«Oh ambizioni degli uomini!»
Già. Per esempio, che grida di vittoria perché l'uomo, come quel vostro cappellaccio, s’è messo a volare, a far l'uccellino! Ecco intanto qua un vero uccellino come vola. L'avete visto? La facilità piú schietta e lieve, che s’accompagna spontanea a un trillo di gioja. Pensare adesso al goffo apparecchio rombante e allo sgomento, all'ansia, all'angoscia mortale dell'uomo che vuol fare l'uccellino! Qua un frullo e un trillo; là un motore strepitoso e puzzolente, e la morte davanti. Il motore si guasta; il motore s'arresta; addio uccellino!
«Uomo,» dite voi, sdrajati qua sull'erba, «lascia di volare! Perché vuoi volare? E quando hai volato?»
Bravi. Lo dite qua, per ora, questo; perché siete in campagna, sdrajati sull'erba. Alzatevi, rientrate in città e, appena rientrati, lo intenderete subito perché l'uomo voglia volare. Qua, cari miei, avete veduto l'uccellino vero, che vola davvero, e avete smarrito il senso e il valore delle ali finte e del volo meccanico. Lo riacquisterete subito là, dove tutto è finto e meccanico, riduzione e costruzione: un altro mondo nel mondo: mondo manifatturato, combinato, congegnato; mondo d'artificio, di stortura, d'adattamento, di finzione, di vanità; mondo che ha senso e valore soltanto per l'uomo che ne è l'artefice.
Via, via, aspettate che vi dia una mano per tirarvi sú. Siete grasso, voi. Aspettate: su la schiena vè rimasto qualche filo d'erba... Ecco andiamo via.


--------------------------------------------------------------------------------

XI. Rientrando in città

Guardatemi ora questi alberi che scortano di qua e di là, in fila lungo i marciapiedi, questo nostro Corso di Porta Vecchia, che aria smarrita, poveri alberi cittadini, tosati e pettinati!
Probabilmente non pensano, gli alberi; le bestie, probabilmente, non ragionano. Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e potessero parlare, chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra, facciamo crescere in mezzo alla città Pare che chiedano, nel vedersi cosí specchiati in queste vetrine di botteghe, che stiano a farci qua, tra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestío della vita cittadina. Piantati da tanti anni, sono rimasti miseri e squallidi alberelli. Orecchi, non mostrano d'averne. Ma chi sa, forse gli alberi, per crescere, hanno bisogno di silenzio.
Siete mai stati nella piazzetta dell'Olivella, fuori le mura? al conventino antico dei Trinitarii bianchi? Che aria di sogno e d'abbandono, quella piazzetta, e che silenzio strano, quando dalle tegole nere e muschiose di quel convento vecchio, s’affaccia bambino, azzurro azzurro, il riso della mattina!
Ebbene, ogni anno la terra, lí, nella sua stupida materna ingenuità, cerca d'approfittare di quel silenzio. Forse crede che lí non sia piú città; che gli uomini abbiano disertato quella piazzetta; e tenta di riprendersela, allungando zitta zitta, pian pianino, di tra il selciato, tanti fili d'erba. Nulla è piú fresco e tenero di quegli esili timidi fili d'erba di cui verzica in breve tutta la piazzetta. Ma ahimè non durano piú d'un mese. È città lí; e non è permesso ai fli d'erba di spuntare. Vengono ogni anno quattro o cinque spazzini; s’accosciano in terra e con certi loro ferruzzi li strappano via.
Io vidi l'altr'anno, lí, due uccellini che, udendo lo stridore di quei ferruzzi sui grigi scabri quadratini del selciato, volavano dalla siepe alla grondaia del Convento, di qua alla siepe di nuovo, e scotevano il capino e guardavano di traverso, quasi chiedessero, angosciati, che cosa stéssero a fare quegli uomini là.
«E non lo vedete, uccellini?» io dissi loro. «Non lo vedete che fanno? Fanno la barba a questo vecchio selciato.»
Scapparono via inorriditi quei due uccellini.
Beati loro che hanno le ali e possono scappare! Quant'altre bestie non possono, e sono prese e imprigionate e addomesticate in città e anche nelle carpagne; e com'è triste la loro forzata obbedienza agli strani bisogni degli uomini! Che ne capiscono? Tirano il carro, tirano l'aratro.
Ma forse anch’esse le bestie, le piante e tutte le cose, hanno poi un senso e un valore per sé, che l'uomo non può intendere, chiuso com'è in quelli che egli per conto suo dà alle une e alle altre, e che la natura spesso, dal canto suo mostra di non riconoscere e d'ignorare.
Ci vorrebbe un po' piú d'intesa tra l'uomo e la natura. Troppo spesso la natura si diverte a buttare all'aria tutte le nostre ingegnose costruzioni. Cicloni, terremoti... Ma l'uomo non si dà per vinto. Ricostruisce, ricostruisce, bestiolina pervicace. E tutto è per lui materia di ricostruzione. Perché ha in sé quella tal cosa che non si sa che sia, per cui deve per forza costruire, trasformare a suo modo la materia che gli offre la natura ignara, forse e, almeno quando vuole, paziente. Ma si contentasse soltanto delle cose, di cui, fino a prova contraria, non si conosce che abbiano in sé facoltà di sentire lo strazio a causa dei nostri adattamenti e delle nostre costruzioni! Nossignori. L'uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.
Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch’io possa conoscervi, se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? E forse questa forma la cosa stessa? Sí, tanto per me, quanto per voi; ma non cosí per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo.
Eppure, non c'è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.
Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà. E perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d'un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione.
Fermezza di volontà, dunque. Costanza nei sentimenti. Tenetevi forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non andare incontro a queste ingrate soprese.
Ma che belle costruzioni vengono fuori!


--------------------------------------------------------------------------------

XII. Quel caro Gengè

«No no, bello mio, statti zitto! Vuoi che non sappia quel che ti piace e quel che non ti piace? Conosco bene i tuoi gusti, io, e come tu la pensi.»
Quante volte non m'aveva detto cosí Dida mia moglie? E io, imbecille, non ci avevo fatto mai caso.
Ma sfido ch’ella conosceva quel suo Gengè piú che non lo conoscessi io! Se l'era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il fantoccio ero io.
Sopraffazione? Sostituzione?
Ma che!
Per sopraffare uno, bisogna che questo uno esista: e per sostituirlo, bisogna che esista ugualmente e che si possa prendere per le spalle e strappare indietro per mettere un altro al suo posto.
Dida mia moglie non m'aveva né sopraffatto né sostituito. Sarebbe sembrata a lei al contrario una sopraffazione e una sostituzione se io ribellandomi e armando comunque una volontà d'essere a mio modo mi fossi tolto dai piedi quel Suo Gengè.
Perché quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei non esistevo affatto, non ero mai esistito.
La realtà mia era per lei in quel suo Gengè che ella s'era formato, che aveva pensieri sentimenti e gusti che non eran i miei e che io non avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio di diventar subito un altro che ella non avrebbe piú riconosciuto, un estraneo che ella non avrebbe piú potuto né comprendere né amare.
Purtroppo non avevo mai saputo dare una qualche forma alla mia vita; non mi ero mai voluto fermamente in un modo mio, proprio e particolare, per non avere mai incontrato ostacoli che suscitassero in me la volontà di resistere e di affermarmi comunque davanti agli altri e a me stesso, sia per questo mio animo disposto a pensare e sentire anche il contrario di ciò che poc'anzi pensava e sentiva, cioè a scomporre e a disgregare in me con assidue e spesso opposte riflessioni di derivazione mentale e sentimentale; sia infine per la mia natura cosí inchinevole a cedere, ad abbandonarsi alla discrezione altrui non tanto per debolezza, quanto per noncuranza e anticipata rassegnazione ai dispiaceri che me ne potessero venire.
Ed ecco intanto, che me n'era venuto! Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m'avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.
Gengè, sí, viveva, per mia moglie Dida. Ma non potevo in nessun modo consolarmene perché v'assicuro che difficilmente potrebbe immaginarsi una creatura piú sciocca di questo caro Gengè di mia moglie Dida.
E il bello, intanto, era questo: che non era mica senza difetti per lei quel suo Gengè. Ma ella glieli compativa tutti! Tante cose di lui non le piacevano, perché non se l'era costruito in tutto a suo modo, secondo il suo gusto e il suo capriccio: no.
Ma a modo di chi allora?
Non certo a modo mio, perché io, ripeto, non riuscivo davvero a riconoscere per miei i pensieri, i sentimenti, i gusti che ella attribuiva al suo Gengè. Si vede dunque chiaramente che glieli attribuiva perché, secondo lei, Gengè aveva quei gusti e pensava e sentiva cosí, a modo suo, c'è poco da dire, propriamente suo, secondo la sua realtà che non era affatto la mia.
La vedevo piangere qualche volta per certe amarezze ch’egli, Gengè, le cagionava. Egli, sissignori! E se le domandavo:
«Ma perché, cara?»
Mi rispondeva:
«Ah, me lo domandi? Ah, non ti basta quello che m'hai detto or ora?»
«Io?»
«Tu, tu, sí!»
«Ma quando mai? Che cosa?»
Trasecolavo.
Era manifesto che il senso che io davo alle mie parole era un senso per me; quello che poi esse assumevano per lei, quali parole di Gengè, era tutt'altro. Certe parole che, dette da me o da un altro, non le avrebbero dato dolore, dette da Gengè, la facevano piangere, perché in bocca di Gengè assumevano chi sa quale altro valore; e la facevano piangere, sissignori.
Io dunque parlavo per me solo. Ella parlava col suo Gengè. E questi le rispondeva per bocca mia in un modo che a me restava al tutto ignoto. E non è credibile, come diventassero sciocche, false, senza costrutto tutte le cose ch’io le dicevo e che ella mi ripeteva.
«Ma come?» le domandavo. «Io ho detto cosí?»
«Sí, Gengè mio, proprio cosí!»
Ecco: erano di Gengè suo quelle sciocchezze; ma non erano sciocchezze: tutt'altro! Era il modo di pensare di Gengè, quello.
E io, ah come lo avrei schiaffeggiato, bastonato, sbranato! Ma non lo potevo toccare. Perché, nonostante i dispiaceri che le cagionava, le sciocchezze che diceva, Gengè era molto amato da mia moglie Dida; rispondeva per lei, cosí com'era, all'ideale del buon marito, a cui qualche lieve difetto si perdona in grazia di tant'altre buone qualità.
Se io non volevo che Dida mia moglie andasse a cercare in un altro il suo ideale, non dovevo toccare quel suo Gengè.
In principio pensavo che forse i miei sentimenti erano troppo complicati; i miei pensieri, troppo astrusi; i miei gusti, troppo insoliti; e che perciò mia moglie, spesso, non intendendoli, li travisava. Pensavo, insomma, che le mie idee e i miei sentimenti non potessero capire, se non cosí ridotti e rimpiccoliti, nel cervellino e nel coricino di lei; e che i miei gusti non si potessero accordare con la sua semplicità.
Ma che! ma che! Non li travisava lei, non li rimpiccoliva lei i miei pensieri e i miei sentimenti. No, no. Cosí travisati, cosí rimpiccoliti come le arrivavano dalla bocca di Gengè, mia moglie Dida li stimava sciocchi; anche lei, capite?
E chi dunque li travisava e li rimpiccoliva cosí? Ma la realtà di Gengè, signori miei! Gengè, quale ella se l'era foggiato, non poteva avere se non di quei pensieri, di quei sentimenti, di quei gusti. Sciocchino ma carino. Ah sí, tanto carino per lei! Lo amava cosí: carino sciocchino. E lo amava davvero.
Potrei recar tante prove. Basterà quest'una: la prima che mi viene a mente.
Dida, da ragazza, si pettinava in un certo modo che piaceva non soltanto a lei, ma anche a me, moltissimo. Appena sposata, cangiò pettinatura. Per lasciarla fare a suo modo io non le dissi che questa nuova pettinatura non mi piaceva affatto. Quand'ecco, una mattina, m'apparve all'improvviso, in accappatoio, col pettine ancora in mano, acconciata al modo antico e tutt'accesa in volto.
«Gengè!» mi gridò, spalancando l'uscio, mostrandosi e rompendo in una risata.
Io restai ammirato, quasi abbagliato.
«Oh,»esclamai, «finalmente!»
Ma subito ella si cacciò le mani nei capelli, ne trasse le forcinelle e disfece in un attimo la pettinatura.
«Va’ là!» mi disse. «Ho voluto farti uno scherzo. So bene, signorino, che non ti piaccio pettinata cosí!»
Protestai, di scatto:
«Ma chi te l'ha detto, Dida mia? Io ti giuro, anzi, che...»
Mi tappò la bocca con la mano.
«Va’ là!» ripeté. «Tu me lo dici per farmi piacere. Ma io non debbo piacere a me, caro mio. Vuoi che non sappia come piaccio meglio al mio Gengè?»
E scappò via.
Capite? Era certa, certissima che al suo Gengè piaceva meglio pettinata in quell'altro modo, e si pettinava in quell'altro modo che non piaceva né a lei né a me. Ma piaceva al suo Gengè; e lei si sacrificava. Vi par poco? Non sono veri e proprii sacrifici, questi, per una donna?
Tanto lo amava!
E io - ora che tutto alla fine mi s'era chiarito - cominciai a divenire terribilmente geloso - non di me stesso, vi prego di credere: voi avete voglia di ridere! - non di me stesso, signori, ma di uno che non ero io, di un imbecille che s'era cacciato tra me e mia moglie; non come un'ombra vana, no, - vi prego di credere - perché egli anzi rendeva me ombra vana, me, me, appropriandosi del mio corpo per farsi amare da lei.
Considerate bene. Non baciava forse mia moglie, su le mie labbra, uno che non ero io? Su le mie labbra? No! Che mie! In quanto erano mie, propriamente mie le labbra ch'ella baciava? Aveva ella forse tra le braccia il mio corpo? Ma in quanto realmente poteva esser mio, quel corpo, in quanto realmente appartenere a me, se non ero io colui ch’ella abbracciava e amava?
Considerate bene. Non vi sentireste traditi da vostra moglie con la piú raffinata delle perfidie, se poteste conoscere che ella, stringendovi tra le braccia, assapora e si gode per mezzo del vostro corpo l’amplesso d'un altro che lei ha in mente e nel cuore?
Ebbene, in che era diverso dal mio questo caso?
Il mio caso era anche peggiore! Perché, in quello, vostra moglie - scusate - nel vostro amplesso si finge soltanto l'amplesso d'un altro; mentre, nel mio caso, mia moglie si stringeva tra le braccia la realtà di uno che non ero io!
Ed era tanto realtà quest'uno, che quando io alla fine, esasperato, lo volli distruggere imponendo, invece della sua, una mia realtà, mia moglie, che non era stata mai mia moglie ma la moglie di colui, si ritrovò subito, inorridita, come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò di non potermi piú amare, di non poter piú convivere con me neanche un minuto e scappò via.
Sissignori, come vedrete, scappò via.
 
Top
camillamencarelli
view post Posted on 15/5/2005, 13:47




LIBRO TERZO.

I. Pazzie per forza

Ma voglio dirvi prima, almeno in succinto, le pazzie che cominciai a fare per scoprire tutti quegli altri Moscarda che vivevano nei miei piú vicini conoscenti, e distruggerli a uno a uno.
Pazzie per forza. Perché, non avendo mai pensato finora a costruire di me stesso un Moscarda che consistesse ai miei occhi e per mio conto in un modo d'essere che mi paresse da distinguere come a me proprio e particolare, sintende che non mi era possibile agire con una qualche logica coerenza. Dovevo a volta a volta dimostrarmi il contrario di quel che ero o supponevo d'essere in questo e in quello dei miei conoscenti, dopo essermi sforzato di comprendere la realtà che m'avevano data: meschina, per forza, labile, volubile e quasi inconsistente.
Però ecco: un certo aspetto, un certo senso, un certo valore dovevo pur averlo per gli altri, oltre che per le mie fattezze fuori della veduta mia e della mia estimativa, anche per tante cose a cui finora non avevo mai pensato.
Pensarci e sentire un impeto di feroce ribellione fu tutt'uno.


--------------------------------------------------------------------------------

II. Scoperte

Il nome, sia: brutto fino alla crudeltà. Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante.
Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro; e io non bollavo ogni volta di quel mio nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno - staccato - che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda.
Parlavo con un amico: niente di strano: mi rispondeva; lo vedevo gestire; aveva la sua solita voce, riconoscevo i suoi soliti gesti; e anch’egli, standomi a sentire se gli parlavo, riconosceva la mia voce e i miei gesti. Nulla di strano, sí, ma finché io non pensavo che il tono che aveva per me la voce del mio amico non era affatto lo stesso di quella ch’egli si conosceva, perché forse il tono della sua voce egli non se lo conosceva nemmeno, essendo quella, per lui, la sua voce; e che il suo aspetto era quale io lo vedevo, cioè quello che gli davo io, guardandolo da fuori, mentre lui, parlando, non aveva davanti alla mente, certo, nessuna immagine di se stesso, neppur quella che si dava e si riconosceva guardandosi allo specchio.
Oh Dio, e che avveniva allora di me? avveniva lo stesso della mia voce? del mio aspetto? Io non ero piú un indistinto io che parlava e guardava gli altri, ma uno che gli altri invece guardavano, fuori di loro, e che aveva un tono di voce e un aspetto ch’io non mi conoscevo. Ero per il mio amico quello che egli era per me: un corpo impenetrabile che gli stava davanti e ch’egli si rappresentava con lineamenti a lui ben noti, i quali per me non significavano nulla; tanto vero che non ci pensavo nemmeno, parlando, né potevo vedermeli né saper come fossero; mentre per lui erano tutto, in quanto gli rappresentavano me quale ero per lui, uno tra tanti: Moscarda. Possibile? E Moscarda era tutto ciò che esso diceva e faceva in quel mondo a me ignoto; Moscarda era anche la mia ombra; Moscarda se lo vedevano mangiare; Moscarda, se lo vedevano fumare; Moscarda, se andava a spasso; Moscarda, se si soffiava il naso.
Non lo sapevo, non ci pensavo, ma nel mio aspetto, cioè in quello che essi mi davano, in ogni mia parola che sonava per loro con una voce ch’io non potevo sapere, in ogni mio atto interpretato da ciascuno a suo modo, sempre c'erano per gli altri impliciti il mio nome e il mio corpo.
Se non che, ormai, per quanto potesse parermi stupido e odioso essere bollato cosí per sempre e non potermi dare un altro nome, tanti altri a piacere, che s’accordassero a volta a volta col vario atteggiarsi de’ miei sentimenti e delle mie azioni; pure ormai, ripeto, abituato com'ero a portar quello fin dalla nascita, potevo non farne gran caso, e pensare che io infine non ero quel nome; che quel nome era per gli altri un modo di chiamarmi, non bello ma che avrebbe potuto tuttavia essere anche piú brutto. Non c'era forse un Sardo a Richieri che si chiamava Porcu? Sí.
«Signor Porcu...»
E non rispondeva mica con un grugnito.
«Eccomi, a servirla...»
Pulito pulito e sorridente rispondeva. Tanto che uno quasi si vergognava di doverlo chiamare cosí.
Lasciamo dunque il nome, e lasciamo anche le fattezze, benché pure - ora che davanti allo specchio mi s’era duramente chiarita la necessità di non poter dare a me stesso un'immagine di me diversa da quella con cui mi rappresentavo - anche queste fattezze sentivo estranee alla mia volontà e contrarie dispettosamente a qualunque desiderio potesse nascermi d'averne altre, che non fossero queste, cioè questi capelli cosí, di questo colore, questi occhi cosí, verdastri, e questo naso e questa bocca; lasciamo, dico, anche le fattezze, perché alla fin fine dovevo riconoscere che avrebbero potuto essere anche mostruose e avrei dovuto tenermele e rassegnarmi a esse, volendo vivere; non erano, e dunque via, dopo tutto, potevo anche accontentarmene.
Ma le condizioni? dico le condizioni mie che non dipendevano da me? le condizioni che mi determinavano, fuori di me, fuori d'ogni mia volontà? le condizioni della mia nascita, della mia famiglia? Non me l'ero mai poste davanti, io, per valutarle come potevano valutarle gli altri, ciascuno a suo modo, s'intende, con una sua particolar bilancia, a peso d'invidia, a peso d'odio o di sdegno o che so io.
M'ero creduto finora un uomo nella vita. Un uomo, cosí, e basta. Nella vita. Come se in tutto mi fossi fatto da me. Ma come quel corpo non me l'ero fatto io, come non me l'ero dato io quel nome, e nella vita ero stato messo da altri senza mia volontà; cosí, senza mia volontà, tant'altre cose m'erano venute sopra dentro intorno, da altri; tant'altre cose m'erano state fatte, date da altri, a cui effettivamente io non avevo mai pensato, mai dato immagine, l'immagine strana, nemica, con cui mi s’avventavano adesso.
La storia della mia famiglia! La storia della mia famiglia nel mio paese: non ci pensavo; ma era in me, questa storia, per gli altri; io ero uno, l'ultimo di questa famiglia; e ne avevo in me, nel corpo, lo stampo e chi sa in quante abitudini d'atti e di pensieri, a cui non avevo mai riflettuto, ma che gli altri riconoscevano chiaramente in me, nel mio modo di camminare, di ridere, di salutare. Mi credevo un uomo nella vita, un uomo qualunque, che vivesse cosí alla giornata una scioperata vita in fondo, benché piena di curiosi pensieri vagabondi; e no, e no: potevo essere per me uno qualunque, ma per gli altri no; per gli altri avevo tante sommarie determinazioni, ch’io non m'ero date né fatte e a cui non avevo mai badato; e quel mio poter credermi un uomo qualunque voglio dire quel mio stesso ozio, che credevo proprio mio, non era neanche mio per gli altri: m'era stato dato da mio padre, dipendeva dalla ricchezza di mio padre; ed era un ozio feroce, perché mio padre...
Ah, che scoperta Mio padre... La vita di mio padre...


--------------------------------------------------------------------------------

III. Le radici

M'apparve. Alto, grasso, calvo. E nei limpidi quasi vitrei occhi azzurrini il solito sorriso gli brillava per me, d'una strana tenerezza, ch’era un po' compatimento, un po' derisione anche, ma affettuosa, come se in fondo gli piacesse ch’io fossi tale da meritarmela, quella sua derisione, considerandomi quasi un lusso di bontà che impunemente egli si potesse permettere.
Se non che, questo sorriso, nella barba folta, cosí rossa e cosí fortemente radicata che gli scoloriva le gote, questo sorriso sotto i grossi baffi un po' ingialliti nel mezzo, era a tradimento, ora, una specie di ghigno muto e frigido, lí nascosto; a cui non avevo mai badato. E quella tenerezza per me affiorando e brillando negli occhi da quel ghigno nascosto m'appariva ora orribilmente maliziosa: tante cose mi svelava a un tratto che mi fendevano di brividi la schiena. Ed ecco lo sguardo di quegli occhi vitrei mi teneva, mi teneva affascinato per impedirmi di pensare a queste cose, di cui pure era fatta la sua tenerezza per me, ma che pure erano orribili.
«Ma se tu eri e sei ancora uno sciocco... sí, un povero ingenuo sventato, che te ne vai appresso ai tuoi pensieri, senza mai fermarne uno per fermarti; e mai un proposito non ti sorge, che tu non ti ci metta a girare attorno, e tanto te lo guardi che infine ti ci addormenti, e il giorno appresso apri gli occhi, te lo vedi davanti e non sai piú come ti sia potuto sorgere se jeri c'era quest'aria e questo sole; per forza, vedi, io ti dovevo voler bene cosí. Le mani? che mi guardi? ah, questi peli rossi qua, anche sul dorso delle dita? gli anelli... troppi? e questa grossa spilla alla cravatta, e anche la catena dell'orologio... Troppo oro? che mi guardi?
Vedevo stranamente la mia angoscia distrarsi con sforzo da quegli occhi, da tutto quell'oro e affiggersi in certe venicciuole azzurrognole che gli trasparivano serpeggianti su su per la pallida fronte con pena, sul lucido cranio contornato dai capelli rossi, rossi come i miei - cioè, i miei come i suoi - e che miei dunque, se cosí chiaramente m'erano venuti da lui? E quel lucido cranio a poco a poco, ecco, mi svaniva davanti come ingoiato nel vano dell'aria.
Mio padre!
Nel vano, ora, un silenzio esterrefatto, grave di tutte le cose insensate e informi, che stanno nell'inerzia mute e impenetrabili allo spirito.
Fu un attimo, ma l'eternità. Vi sentii dentro tutto lo sgomento delle necessità cieche, delle cose che non si possono mutare: la prigione del tempo; il nascere ora, e non prima e non poi; il nome e il corpo che ci è dato; la catena delle cause; il seme gettato da quell'uomo: mio padre senza volerlo; il mio venire al mondo, da quel seme; involontario frutto di quell'uomo; legato a quel ramo; espresso da quelle radici.


--------------------------------------------------------------------------------

IV. Il seme

Vidi allora per la prima volta mio padre come non lo avevo mai veduto: fuori, nella sua vita; ma non com'era per sé come in sé si sentiva, ch’io non potevo saperlo; ma come estraneo a me del tutto, nella realtà che, tal quale egli ora m'appariva, potevo supporre gli dessero gli altri.
A tutti i figli sarà forse avvenuto. Notare com'alcunché d'osceno che ci mortifica, laddove è il padre per noi che si rispetta. Notare, dico, che gli altri non dànno e non possono dare a questo padre quella stessa realtà che noi gli diamo. Scoprire com'egli vive ed è uomo fuori di noi, per sé, nelle sue relazioni con gli altri, se questi altri, parlando con lui o spingendolo a parlare, a ridere, a guardare, per un momento si dimentichino che noi siamo presenti, e cosí ci lascino intravedere l'uomo ch’essi conoscono in lui, l'uomo ch’egli è per loro. Un altro. E come? Non si può sapere. Subito nostro padre ha fatto un cenno, con la mano o con gli occhi, che ci siamo noi. E quel piccolo cenno furtivo, ecco, ci ha scavato in un attimo un abisso dentro. Quello che ci stava tanto vicino, eccolo balzato lontano e intravisto là come un estraneo. E sentiamo la nostra vita come lacerata tutta, meno che in un punto per cui resta attaccata ancora a quell'uomo. E questo punto è vergognoso. La nostra nascita staccata, recisa da lui, come un caso comune, forse previsto, ma involontario nella vita di quell'estraneo, prova d'un gesto, frutto d'un atto, alcunché insomma che ora, sí, ci fa vergogna, ci suscita sdegno e quasi odio. E se non propriamente odio, un certo acuto dispetto notiamo anche negli occhi di nostro padre, che in quell'attimo si sono scontrati nei nostri. Siamo per lui, lí ritti in piedi, e con due vigili occhi ostili, ciò che egli dallo sfogo d'un suo momentaneo bisogno o piacere, non si aspettava: quel seme gettato ch’egli non sapeva, ritto ora in piedi e con due occhi fuoruscenti di lumaca che guardano a tentoni e giudicano e gl'impediscono d'essere ancora in tutto a piacer suo, libero, un altro anche rispetto a noi.


--------------------------------------------------------------------------------

V. Traduzione d’un titolo

Non l'avevo mai finora staccato cosí da me mio padre. Sempre l'avevo pensato, ricordato come padre, qual era per me; ben poco veramente, ché morta giovanissima mia madre, fui messo in un collegio lontano da Richieri, e poi in un altro, e poi in un terzo ove rimasi fino ai diciott'anni, e andai poi all'università e vi passai per sei anni da un ordine di studii all'altro, senza cavare un pratico profitto da nessuno; ragion per cui alla fine fui richiamato a Richieri e subito, non so se in premio o per castigo, ammogliato. Due anni dopo mio padre morí senza lasciarmi di sé, del suo affetto altro ricordo piú vivo che quel sorriso di tenerezza, che era - com'ho detto - un pò compatimento, un pò derisione.
Ma ciò che era stato per sé? Moriva ora, mio padre, del tutto. Ciò che era stato per gli altri... E cosí poco per me! E gli veniva anche dagli altri, certo, dalla realtà che gli altri gli davano e ch’egli sospettava, quel sorriso per me... Ora l'intendevo e ne intendevo il perché, orribilmente.
«Che cos’è tuo padre?» mi avevano tante volte domandato in collegio i miei compagni.
E io:
«Banchiere.»
Perché mio padre, per me, era banchiere.
Se vostro padre fosse boia, come si tradurrebbe nella vostra famiglia questo titolo per accordarlo con l'amore che voi avete per lui e ch’egli ha per voi? oh, egli tanto tanto buono per voi, oh, io lo so, non c'è bisogno che me lo diciate; me lo immagino perfettamente l'amore d'un tal padre per il suo figliuolo, la tremante delicatezza delle sue grosse mani nell'abbottonargli la camicina bianca attorno al collo. E poi, feroci domani, all'alba, quelle sue mani, sul palco. Perché anche un banchiere, me lo immagino perfettamente, passa dal dieci al venti e dal venti al quaranta per cento, man mano che cresce in paese con la disistima altrui la fama della sua usura, la quale peserà domani come un'onta sul suo figliuolo che ora non sa e si svaga dietro a strani pensieri, povero lusso di bontà, che davvero se lo meritava, ve lo dico io, quel sorriso di tenerezza, mezzo compatimento e mezzo derisione.


--------------------------------------------------------------------------------

VI. Il buon figliuolo feroce

Con gli occhi pieni dell'orrore di questa scoperta, ma velato l'orrore da un avvilimento, da una tristezza che pur mi atteggiavano le labbra a un sorriso vano, nel sospetto che nessuno potesse crederli e ammetterli in me davvero, io allora mi presentai davanti a Dida mia moglie.
Se ne stava – ricordo - in una stanza luminosa, vestita di bianco e tutta avvolta entro un fulgore di sole, a disporre nel grande armadio laccato bianco e dorato a tre luci i suoi nuovi abiti primaverili.
Facendo uno sforzo, acre d'onta segreta, per trovarmi in gola una voce che non paresse troppo strana, le domandai:
«Tu lo sai, eh Dida, qual è la mia professione?»
Dida, con una gruccia in mano da cui pendeva un abito di velo color isabella, si voltò a guardarmi dapprima, come se non mi riconoscesse. Stordita, ripeté:
«La tua professione?»
E dovetti riassaporar l'agro di quell'onta per riprendere, quasi da un dilaceramento del mio spirito, la domanda che ne pendeva. Ma questa volta mi si sfece in bocca:
«Già,» dissi «che cosa faccio io?»
Dida, allora, stette un poco a mirarmi, poi scoppiò in una gran risata:
«Ma che dici, Gengè?»
Si fracassò d'un tratto allo scoppio di quella risata il mio orrore, l'incubo di quelle necessità cieche in cui il mio spirito, nella profondità delle sue indagini, s’era urtato poc'anzi, rabbrividendo.
Ah, ecco - un usurajo, per gli altri; uno stupido qua, per Dida mia moglie. Gengè io ero; uno qua, nell'animo e davanti agli occhi di mia moglie; e chi sa quant'altri Gengè, fuori, nell'animo o solamente negli occhi della gente di Richieri. Non si trattava del mio spirito, che si sentiva dentro di me libero e immune, nella sua intimità originaria, di tutte quelle considerazioni delle cose che m'erano venute, che mi erano state fatte e date dagli altri, e principalmente di questa del danaro e della professione di mio padre.
No? E di chi si trattava dunque? Se potevo non riconoscer mia questa realtà spregevole che mi davano gli altri, ahimè dovevo pur riconoscere che se anche me ne fossi data una, io, per me, questa non sarebbe stata piú vera, come realtà, di quella che mi davano gli altri, di quella in cui gli altri mi facevano consistere con quel corpo che ora, davanti a mia moglie, non poteva neanch’esso parermi mio, giacché se l'era appropriato quel Gengè suo, che or ora aveva detto una nuova sciocchezza per cui tanto ella aveva riso. Voler sapere la sua professione E che non si sapeva?
«Lusso di bontà...» feci, quasi tra me, staccando la voce da un silenzio che mi parve fuori della vita, perché, ombra davanti a mia moglie, non sapevo piú donde io - io come io - le parlassi.
«Che dici?» ripeté lei, dalla solidità certa della sua vita, con quell'abito color isabella sul braccio.
E com'io non risposi, mi venne avanti, mi prese per le braccia e mi soffiò sugli occhi, come a cancellarvi uno sguardo che non era piú di Gengè, di quel Gengè il quale ella sapeva che al pari di lei doveva fingere di non conoscere come in paese si traducesse il nome della professione di mio padre.
Ma non ero peggio di mio padre, io? Ah Mio padre almeno lavorava... Ma io! Che facevo io? Il buon figliuolo feroce. Il buon figliuolo che parlava di cose aliene (bizzarre anche): della scoperta del naso che mi pendeva verso destra: oppure dell'altra faccia della luna; mentre la cosí detta banca di mio padre, per opera dei due fidati amici Firbo e Quantorzo, seguitava a lavorare, prosperava. C'erano anche socii minori, nella banca, e anche i due fidati amici vi erano - come si dice - cointeressati, e tutto andava a gonfie vele senza ch’io me n'impicciassi punto, voluto bene da tutti quei consocii, da Quantorzo, come un figliuolo, da Firbo come un fratello; i quali tutti sapevano che con me era inutile parlar d'affari e che bastava di tanto in tanto chiamarmi a firmare; firmavo e quest'era tutto. Non tutto, perché anche di tanto in tanto qualcuno veniva a pregarmi d'accompagnarlo a Firbo o a Quantorzo con un bigliettino di raccomandazione; già e io allora gli scoprivo sul mento una fossetta che glielo divideva in due parti non perfettamente uguali, una piú rilevata di qua, una piú scempia di là.
Come non m'avevano finora accoppato? Eh, non m'accoppavano, signori, perché, com'io non m'ero finora staccato da me per vedermi, e vivevo come un cieco nelle condizioni in cui ero stato messo, senza considerare quali fossero, perché in esse ero nato e cresciuto e m'erano perciò naturali; cosí anche per gli altri era naturale ch’io fossi cosí; mi conoscevano cosí; non potevano pensarmi altrimenti, e tutti potevano ormai guardarmi quasi senz'odio e anche sorridere a questo buon figliuolo feroce.
Tutti?
Mi sentii a un tratto confitti nell'anima due paja d'occhi come quattro pugnali avvelenati: gli occhi di Marco di Dio e di sua moglie Diamante, che incontravo ogni giorno sulla mia strada, rincasando.


--------------------------------------------------------------------------------

VII. Parentesi necessaria, una per tutti

Marco di Dio e sua moglie Diamante ebbero la ventura d'essere (se ben ricordo) le prime mie vittime. Voglio dire, le prime designate all'esperimento della distruzione d'un Moscarda.
Ma con qual diritto ne parlo? con qual diritto do qui aspetto e voce ad altri fuori di me? Che ne so io? Come posso parlarne? Li vedo da fuori, e naturalmente quali sono per me cioè in una forma nella quale certo essi non si riconoscerebbero. E non faccio dunque agli altri lo stesso torto di cui tanto mi lamento io?
Sí, certo; ma con la piccola differenza delle fissazioni, di cui ho già parlato in principio; di quel certo modo in cui ciascuno si vuole, costruendosi cosí o cosí, secondo come si vede e sinceramente crede di essere, non solo per sé, ma anche per gli altri. Presunzione, comunque, di cui bisogna pagar la pena.
Ma voi, lo so, non vi volete ancora arrendere ed esclamate:
«E i fatti? Oh, perdio, e non ci sono i dati di fatto?»
«Sí, che ci sono.»
Nascere è un fatto. Nascere in un tempo anziché in un altro ve l'ho già detto; e da questo o da quel padre, e in questa o quella condizione; nascere maschio o femmina; in Lapponia o nel centro dell'Africa; e bello o brutto; con la gobba o senza gobba: fatti. E anche se perdete un occhio, è un fatto e potete anche perderli tutti e due, e se siete pittore è il peggior fatto che vi possa capitare.
Tempo, spazio, necessità. Sorte, fortuna, casi: trappole tutte della vita. Volete essere? C'è questo. In astratto non si è. Bisogna che s’intrappoli l'essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, cosí o cosí. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena d'esser cosí e di non poter piú essere altrimenti. Quello sbiobbo là, pare una burla, uno scherzo compatibile sí e no per un minuto solo e poi basta; poi dritto, su, svelto, agile, alto.... ma che! sempre cosí, per tutta la vita che è una sola; e bisogna che si rassegni a passarla tutta tutta cosí.
E come le forme, gli atti.
Quando un atto è compiuto, è quello; non si cangia piú. Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che poi si senta e si ritrovi negli atti compiuti, ciò che ha fatto, resta: come una prigione per lui. Se avete preso moglie, o anche materialmente, se avete rubato e siete stato scoperto; se avete ucciso, come spire e tentacoli vi avviluppano le conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra, attorno, come un'aria densa, irrespirabile, la responsabilità che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non previste, vi siete assunta. E come potete piú liberarvi?
Già. Ma che intendete dire con questo? Che gli atti come le forme determinano la realtà mia o la vostra? E come? perché? Che siano una prigione, nessuno può negare. Ma se volete affermar questo soltanto, state in guardia che non affermate nulla contro di me, perché io dico appunto e sostengo anzi questo che sono una prigione e la piú ingiusta che si possa immaginare.
Mi pareva, santo Dio, d'avervelo dimostrato! Conosco Tizio. Secondo la conoscenza che ne ho, gli do una realtà: per me. Ma Tizio lo conoscete anche voi, e certo quello che conoscete voi non è quello stesso che conosco io perché ciascuno di noi lo conosce a suo modo e gli dà a suo modo una realtà. Ora anche per se stesso Tizio ha tante realtà per quanti di noi conosce, perché in un modo si conosce con me e in un altro con voi e con un terzo, con un quarto e via dicendo. Il che vuol dire che Tizio è realmente uno con me, uno con voi, un altro con un terzo, un altro con un quarto e via dicendo, pur avendo l'illusione anche lui, anzi lui specialmente, d'esser uno per tutti. Il guajo è questo; o lo scherzo, se vi piace meglio chiamarlo cosí. Compiamo un atto. Crediamo in buona fede d'esser tutti in quell'atto. Ci accorgiamo purtroppo che non è cosí, e che l'atto è invece sempre e solamente dell'uno dei tanti che siamo o che possiamo essere, quando, per un caso sciaguratissimo, all'improvviso vi restiamo come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell'atto, e che dunque un'atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi a esso, alla gogna, per un'intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell'atto solo.
«Ma io sono anche questo, e quest'altro, e poi quest'altro!» ci mettiamo a gridare.
Tanti, eh già; tanti ch’erano fuori dell'atto di quell'uno, e che non avevano nulla o ben poco da vedere con esso. Non solo; ma quell'uno stesso, cioè quella realtà che in un momento ci siamo data e che in quel momento ha compiuto l'atto, spesso poco dopo è sparito del tutto; tanto vero che il ricordo dell'atto resta in noi, se pure resta, come un sogno angoscioso, inesplicabile. Un altro, dieci altri, tutti quegli altri che noi siamo o possiamo essere, sorgono a uno a uno in noi a domandarci come abbiamo potuto far questo; e non ce lo sappiamo piú spiegare.
Realtà passate.
Se i fatti non son tanto gravi, queste realtà passate le chiamiamo inganni. Sí, va bene; perché veramente ogni realtà è un inganno. Proprio quell'inganno per cui ora dico a voi che n'avete un altro davanti.
«Voi sbagliate!»
Siamo molto superficiali, io e voi. Non andiamo ben addentro allo scherzo, che è piú profondo e radicale, cari miei. E consiste in questo: che l'essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze ch’esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l'essere in quella forma e in quell'atto ci appare.
E ci deve sembrare per forza che gli altri hanno sbagliato; che una data forma, un dato atto non è questo e non è cosí. Ma inevitabilmente, poco dopo, se ci spostiamo d'un punto, ci accorgiamo che abbiamo sbagliato anche noi, e che non è questo e non è cosí; sicché alla fine siamo costretti a riconoscere che non sarà mai né questo né cosí in nessun modo stabile e sicuro; ma ora in un modo ora in un altro, che tutti a un certo punto ci parranno sbagliati, o tutti veri, che è lo stesso; perché una realtà non ci fu data e non c'è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. La facoltà d'illuderci che la realtà d'oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall'altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d'oggi é destinata a scoprire l'illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita.


--------------------------------------------------------------------------------

VIII. Caliamo un poco

Vi pare che l'abbia presa troppo alta? E caliamo un poco. La palla è elastica; ma per rimbalzare bisogna che tocchi terra. Tocchiamo terra e facciamola rivenire alla mano.
Di quali fatti volete parlare? Del fatto che io sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale nella nobile città di Richieri, nella casa in via tale, numero tale, dal signor Tal dei Tali e dalla signora Tal dei Tali; battezzato nella chiesa madre di giorni sei; mandato a scuola a anni sei; ammogliato d'anni ventitré; alto di statura un metro e sessantotto; rosso di pelo, ecc. ecc.?
Sono i miei connotati. Dati di fatto, dite voi. E vorreste desumerne la mia realtà? Ma questi stessi dati che per sé non dicono nulla, credete che importino una valutazione uguale per tutti quand'anche mi rappresentassero intero e preciso, dove mi rappresenterebbero? in quale realtà?
Nella vostra, che non è quella d'un altro: e poi d'un altro; e poi d'un altro. C'è forse una realtà sola, una per tutti? Ma se abbiamo visto che non ce n'è una neanche per ciascuno di noi, poiché in noi stessi la nostra cangia di continuo! E allora?
Ecco qua, terra terra. Siete in cinque? Venite con me.
Questa è la casa in cui sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale. Ebbene, dal fatto che topograficamente e per l'altezza e la lunghezza e il numero delle finestre poste qua sul davanti questa casa è la stessa per tutti; dal fatto che io per tutti voi cinque vi sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale, rosso di pelo e alto ora un metro e sessantotto, segue forse che voi tutti e cinque diate la stessa realtà a questa casa e a me? A voi che abitate una catapecchia, questa casa sembra un bel palazzo; a voi che avete un certo gusto artistico, sembra una volgarissima casa; voi che passate malvolentieri per la via dov'essa sorge perché vi ricorda un triste episodio della vostra vita, la guardate in cagnesco, voi, invece, con occhio affettuoso perché, lo so, qua dirimpetto abitava la vostra povera mamma che fu buona amica della mia.
E io che vi sono nato? Oh Dio! Quand'anche per tutt'e cinque voialtri in questa casa, che è una e cinque, fosse nato l'anno tale, il mese tale, il giorno tale un imbecille, credete che sia lo stesso imbecille per tutti? Sarò per l'uno imbecille perché lascio Quantorzo direttore della banca e Firbo consulente legale, cioè proprio per la ragione per cui mi stima avvedutissimo l'altro, che crede invece di veder lampante la mia imbecillità nel fatto che conduco a spasso ogni giorno la cagnolina di mia moglie, e cosí via.
Cinque imbecilli. Uno in ciascuno. Cinque imbecilli che vi stanno davanti, come li vedete da fuori, in me che sono uno e cinque come la casa, tutti con questo nome di Moscarda niente per sé, neanche uno, se serve a disegnar cinque differenti imbecilli che, sí, tut'e cinque si volteranno se chiamate: «Moscarda!» ma ciascuno con quell'aspetto che voi gli date; cinque aspetti; se rido, cinque sorrisi, e via dicendo.
E non sarà per voi, ogni atto ch’io compia, l'atto d'uno di questi cinque? E potrà essere lo stesso, quest'atto, se i cinque sono differenti? Ciascuno di voi lo interpreterà, gli darà senso e valore a seconda della realtà che m'ha data.
Uno dirà:
«Moscarda ha fatto questo.»
L'altro dirà:
«Ma che, questo! Ha fatto ben altro!»
E il terzo:
«Per me ha fatto benissimo. Doveva fare cosí!»
Il quarto:
«Ma che cosí e cosí! Ha fatto malissimo. Doveva fare invece...»
E il quinto:
«Che doveva fare? Ma se non ha fatto niente!»
E sarete capaci d'azzuffarvi per ciò che Moscarda ha fatto o non ha fatto, per ciò che doveva o non doveva fare, senza voler capire che il Moscarda dell'uno non è il Moscarda dell’altro; credendo di parlare d'un Moscarda solo, che è proprio uno, sí, quello che vi sta davanti cosí e cosí, come voi lo vedete, come voi lo toccate; mentre parlate di cinque Moascarda; perché anche gli altri quattro ne hanno uno davanti. Uno per ciascuno, che è quello solo, cosí e cosí, come ciascuno lo vede e lo tocca. Cinque; e sei, se il povero Moscarda si vede e si tocca uno anche per sé; uno e nessuno, ahimè, come egli si vede e si tocca, se gli altri cinque lo vedono e lo toccano altrimenti.


--------------------------------------------------------------------------------

IX. Chiudiamo la parentesi

Tuttavia mi sforzerò di darvi, non dubitate, quella realtà che voi credete d'avere; cioè a dire, di volervi in me come voi vi volete. Non è possibile, ormai lo sappiamo bene, giacché, per quanti sforzi io faccia di rappresentarvi a modo vostro, sarà sempre "un modo vostro" soltanto per me, non "un modo vostro" per voi e per gli altri.
Ma scusate: se per voi io non ho altra realtà fuori di quella che voi mi date, e sono pronto a riconoscere e ad ammettere ch’essa non è meno vera di quella che potrei darmi io; che essa anzi per voi è la sola vera (e Dio sa che cos’è codesta realtà che voi mi date!); vorreste lamentarvi adesso di quella che vi darò io, con tutta la buona volontà di rappresentarvi quanto piú mi sarà possibile a modo vostro?
Non presumo che siate come vi rappresento io. Ho affermato già che non siete neppure quell'uno che vi rappresentate a voi stesso, ma tanti a un tempo, secondo tutte le vostre possibilità d'essere, e i casi, le relazioni e le circostanze. E dunque, che torto vi fo io? Me lo fate voi il torto, credendo ch’io non abbia o non possa avere altra realtà fuori di codesta che mi date voi; la quale è vostra soltanto, credete: una vostra idea, quella che vi siete fatta di me, una possibilità d'essere come voi la sentite, come a voi pare, come la riconoscete in voi possibile; giacché di ciò che possa essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso.


--------------------------------------------------------------------------------

X. Due visite

E sono contento che or ora, mentre stavate a leggere questo mio libretto col sorriso un po' canzonatorio che fin da principio ha accompagnato la vostra lettura, due visite, una dentro l'altra, siano venute improvvisamente a dimostrarvi quant'era sciocco quel vostro sorriso.
Siete ancora sconcertato - vi vedo - irritato, mortificato della pessima figura che avete fatto col vostro vecchio amico, mandato via poco dopo sopravvenuto il nuovo, con una scusa meschina, perché non resistevate piú a vedervelo davanti, a sentirlo parlare e ridere in presenza di quell'altro. Ma come? mandarlo via cosí, se poco prima che quest'altro arrivasse, vi compiacevate tanto a parlare e ridere con lui?
Mandato via. Chi? Il vostro amico? Credete sul serio d'aver mandato via lui?
Rifletteteci un poco.
Il vostro vecchio amico, in sé e per sé, non aveva nessuna ragione d'esser mandato via, sopravvenendo il nuovo. I due, tra loro, non si conoscevano affatto, li avete presentati voi l'uno all'altro; e potevano insieme trattenersi una mezz'oretta nel vostro salotto a chiacchierare del piú e del meno. Nessun imbarazzo né per l'uno né per l'altro.
L'imbarazzo l'avete provato voi, e tanto piú vivo e intollerabile, quanto piú, anzi, vedevate quei due a poco a poco acconciarsi tra loro a fare accordo insieme. L'avete subito rotto quell'accordo. Perché? Ma perché voi (non volete ancora capirlo?) voi, all'improvviso, cioè all'arrivo del vostro nuovo amico, vi siete scoperto due, uno cosí dall'altro diverso, che per forza a un certo punto, non resistendo piú, avete dovuto mandarne via uno. Non il vostro vecchio amico, no, avete mandato via voi stesso, quell'uno che siete per il vostro vecchio amico, perché lo avete sentito tutt'altro da quello che siete, o volete essere, per il nuovo.
Incompatibili non erano tra loro quei due, estranei l'uno all'altro, garbatissimi entrambi e fatti fors’anche per intendersi a maraviglia; ma i due voi che all'improvviso avete scoperto in voi stesso. Non avete potuto tollerare che le cose dell’uno fossero mescolate con quelle dell'altro, non avendo esse propriamente nulla di comune tra loro. Nulla, nulla, giacché voi per il vostro vecchio amico avete una realtà e un'altra per il nuovo, cosí diverse in tutto da avvertire voi stesso che rivolgendovi all'uno, l'altro sarebbe rimasto a guardarvi sbalordito; non vi avrebbe piú riconosciuto; avrebbe esclamato tra sé:
«Ma come? è questo? è cosí?»
E nell'imbarazzo insostenibile di trovarvi, cosí, due, contemporaneamente, avete cercato una scusa meschina per liberarvi, non d'uno di loro, ma d'uno dei due che quei due vi costringevano a essere a un tempo.
Su su, tornate a leggere questo mio libretto, senza piú sorridere come avete fatto finora.
Credete pure che, se qualche dispiacere ha potuto recarvi l'esperienza or ora fatta, quest'è niente, mio caro, perché voi non siete due soltanto, ma chi sa quanti, senza saperlo, e credendovi sempre uno.
Andiamo avanti.
 
Top
camillamencarelli
view post Posted on 15/5/2005, 13:49




LIBRO QUARTO

I. Com'erano per me Marco di Dio e sua moglie Diamante

Dico "erano"; ma forse sono in vita ancora. Dove? Qua ancora, forse, che potrei vederli domani. Ma qua, dove? Non ho piú mondo per me; nulla posso sapere del loro, dov'essi si fingono d'essere. So di certo che vanno per via, se domani li incontro per via. Potrei domandare a lui:
«Tu sei Marco di Dio?»
E lui mi risponderebbe:
«Sí. Marco di Dio.»
«E cammini per questa via?
«Sí. Per questa via.»
«E codesta è tua moglie Diamante?»
«Sí. Mia moglie Diamante.»
«E questa via si chiama cosí e cosí?»
«Cosí e cosí. E ha tante case, tante traverse, tanti lampioni,e via discorrendo.»
Come in una grammatica d'Orlendorf.
Ebbene, questo mi bastava allora, come adesso a voi, per stabilire la realtà di Marco di Dio e di sua moglie Diamante e della via per cui potrei ancora incontrarli, come allora li incontravo. Quando? Oh, non molti anni fa. Che bella precisione di spazio e di tempo! La via, cinque anni fa.
L'eternità s’è sprofondata per me, non tra questi cinque anni solamente, ma tra un minuto e l'altro. E il mondo in cui vivevo allora mi pare piú lontano della piú lontana stella del cielo.
Marco di Dio e sua moglie Diamante mi sembravano due sciagurati, a cui però la miseria, se da un canto pareva avesse persuaso essere inutile ormai che si lavassero la faccia ogni mattina, certo dall'altro poi persuadeva ancora di non lasciare nessun mezzo intentato, non già per guadagnare quel poco ogni giorno che bastasse almeno a sfamarli, ma per diventare dall'oggi al domani milionarii: mi-lio-na-ri-i come diceva lui sillabando, con gli occhi truci, sbarrati.
Ridevo allora, e tutti con me ridevano nel sentirgli dire cosí. Ora ne provo raccapriccio, considerando che potevo riderne solo perché non m'era ancora avvenuto di dubitare di quella corroborante provvidenzialissima cosa che si chiama la regolarità delle esperienze; per cui potevo stimare un sogno buffo che si potesse diventare milionari dall'oggi al domani. Ma se questo, ch’è stato già dimostrato un sottilissimo filo, voglio dire della regolarità delle esperienze, si fosse spezzato in me? se per il ripetersi di due o tre volte avesse acquistato invece regolarità per me questo sogno buffo? Anche a me allora sarebbe riuscito impossibile dubitare che realmente si possa da un giorno all'altro diventare milionarii. Quanti conservano la beata regolarità delle esperienze non possono immaginare quali cose possono essere reali o verosimili per chi viva fuori d'ogni regola, come appunto quell'uomo lí.
Si credeva inventore.
E un inventore, signori miei, un bel giorno, apre gli occhi, inventa una cosa, e là: diventa milionario!
Tanti ancora lo ricordano come un selvaggio, appena venuto dalla campagna a Richieri. Ricordano che fu accolto allora nello studio d'uno dei nostri piú reputati artisti, ora morto; e che in poco tempo vi aveva imparato a lavorare con molta perizia il marmo. Se non che il maestro, un giorno, volle prenderlo a modello per un suo gruppo che, esposto in gesso in una mostra d'arte, divenne famoso sotto il titolo Satiro e fanciullo.
Aveva potuto l'artista tradurre senza danno nella creta una visione fantastica, non certo castigata ma bellissima, e compiacersene e averne lode.
Il delitto era nella creta.
Non sospettò il maestro che in quel suo scolaro potesse sorgere la tentazione di tradurre a sua volta quella visione fantastica, dalla creta ov'era lodevolmente fissata per sempre, in un movimento momentaneo e non piú lodevole, mentre, oppresso dall'afa d'un pomeriggio estivo, sudava nello studio a sbozzare nel marmo quel gruppo.
Il fanciullo vero non volle avere la sorridente docilità che il finto dava a vedere nella creta; gridò aiuto; accorse gente; e Marco di Dio fu sorpreso in un atto che era della bestia sorta in lui d'improvviso in quel momento d'afa.
Ora, siamo giusti: bestia, sí; schifosissima, in quell'atto; ma per tanti altri atti onestamente attestati, non era piú forse Marco di Dio anche quel buon giovine che il suo maestro dichiarò d'aver sempre conosciuto nel suo sbozzatore?
So che offendo con questa domanda la vostra moralità. Difatti mi rispondete che se in Marco di Dio poté sorgere una tale tentazione è segno evidente ch’egli non era quel buon giovine che il suo maestro diceva. Potrei farvi osservare intanto, che di simili tentazioni (e anche di piú turpi) sono pur piene le vite dei santi. I santi le attribuivano alle demonia e con l'aiuto di Dio, potevano vincerle. Cosí anche i freni che abitualmente imponete a voi stessi impediscono di solito a quelle tentazioni di nascere in voi, o che in voi scappi fuori all'improvviso il ladro o l'assassino. L'oppressione dell'afa d'un pomeriggio estivo non è mai riuscita a liquefare la crosta della vostra abituale probità né ad accendere in voi momentaneamente la bestia originaria. Potete condannare.
Ma se io ora mi metto a parlarvi di Giulio Cesare, la cui gloria imperiale vi riempie di tanta ammirazione?
«Volgarità!» esclamate. «Non era piú, allora, Giulio Cesare. Lo ammiriamo là dove Giulio Cesare era veramente lui.»
Benissimo. Lui. Ma vedete? Se Giulio Cesare era lui soltanto là dove voi l'ammirate, quando non era piú là, dov'era? chi era? nessuno, uno qualunque? e chi?
Bisognerà domandarlo a Calpurnia sua moglie, o a Nicomede re di Bitinia.
Batti e batti, alla fine v'è entrato in mente anche questo: che Giulio Cesare, uno, non esisteva. Esisteva, sí, un Giulio Cesare qual egli, in tanta parte della sua vita, si rappresentava; questo aveva senza dubbio un valore incomparabilmente più grande degli altri; non però quanto a realtà, vi prego di credere perché non meno reale di questo Giulio Cesare imperiale era quel lezioso fastidioso tutto raso e discinto e infedelissimo di sua moglie Calpurnia: o quello impudicissimo di Nicomede re di Bitinia.
Il guajo è questo, sempre, signori: che dovevano tutti quanti esser chiamati con quel nome solo di Giulio Cesare, e che in un solo corpo di sesso maschile dovevano coabitare tanti e anche una femmina; la quale, volendo esser femmina e non trovandone il modo in quel corpo maschile, dove e come poté, innaturalmente lo fu, e impudicissima e anche piú volte recidiva.
Il satiro in quel povero Marco di Dio scappò fuori, a buon conto, una volta sola e tentato da quel gruppo del suo maestro. Sorpreso in quell'atto d'un momento, fu condannato per sempre. Non trovò nessuno che volesse avere considerazione di lui; e, uscito dal carcere, si diede ad almanaccare i piú bislacchi disegni per sollevarsi dall'ignominiosa miseria in cui era caduto, a braccetto con una donna, la quale un bel giorno era venuta a lui, nessuno sapeva come né da che parte.
Diceva da una decina d'anni che sarebbe partito per l'Inghilterra la settimana ventura. Ma erano forse passati per lui questi dieci anni? Erano passati per coloro che glielo sentivano dire. Egli era sempre deciso a partire per l'Inghilterra la settimana ventura. E studiava l'inglese. O almeno, da anni teneva sotto il braccio una grammatica inglese, aperta e ripiegata sempre allo stesso punto, sicché quelle due pagine dell'apertura con lo strusciare del braccio e il sudicio della giacca erano ridotte ormai illeggibili, mentre le seguenti erano rimaste incredibilmente pulite. Ma fin dove era il sudicio egli sapeva. E di tratto in tratto, andando per via, rivolgeva di sorpresa, aggrondato, qualche domanda alla moglie, come a saggiarne la prontezza e la maturità:
«Is Jane a happy child?»
E la moglie rispondeva pronta e seria:
«Yes, Jane is a happy child.»
Perché anche la moglie la settimana ventura sarebbe partita per l'Inghilterra con lui.
Era uno sgomento, e insieme una pietà, questo spettacolo d'una donna, com'egli fosse riuscito ad attirarla, e farla vivere da cagna fedele in quel suo sogno buffo, di diventar milionario dall'oggi al domani con un'invenzione, per esempio, di "cessi inodori per paesi senz'acqua nelle case". Ridete? La loro serietà era cosí truce per questo; dico, perché tutti ne ridevano. Era anzi feroce. E tanto piú feroce diventava quanto piú crescevano, attorno ad essa, le risa.
E ormai erano arrivati a tal punto, che se qualcuno per caso si fermava ad ascoltare i loro disegni senza riderne, essi, anziché compiacersene, gli lanciavano oblique occhiatacce, non pur di sospetto, anche d'odio. Perché la derisione degli altri era ormai l'aria in cui quel loro sogno respirava. Tolta la derisione, rischiavano di soffocare.
Mi spiego perciò come per loro il peggior nemico fosse stato mio padre.
Non si permetteva infatti solamente con me mio padre quel lusso di bontà di cui ho parlato piú sú. Si compiaceva anche d'agevolare, con munificenza che non si stancava, e ridendo di quel suo particolar sorriso, le stolide illusioni di certuni che, come Marco di Dio, venivano a piangere davanti a lui la loro infelicità di non aver tanto da ridurre a effetto i loro disegni, il loro sogno: la ricchezza!
«Quanto?» domandava mio padre.
Oh, poco. Perché era sempe poco ciò che bastava a costoro per diventar ricchi: mi-lio-na-ri-i. E mio padre dava.
«Ma come! dicevi che ci voleva cosí poco...»
«Già. Non avevo calcolato bene. Ma adesso, proprio...»
«Quanto?»
«Oh, poco!»
E mio padre dava, dava. Ma poi, a un certo punto, basta. E quelli allora, com'è facile intendere, non gli restavano grati del non aver voluto godere beffardamente fin all'ultimo della loro totale disillusione e del potere attribuire a lui invece, senza rimorso, il fallimento, sul meglio, delle loro illusioni. E nessuno con più accanimento di costoro si vendicava chiamando mio padre usurajo.
Il piú accanito di tutti era stato questo Marco di Dio. Il quale ora, morto mio padre, rovesciava su me, e non senza ragione, il suo odio feroce. Non senza ragione, perché anch’io, quasi a mia insaputa, seguitavo a beneficarlo. Lo tenevo alloggiato in una catapecchia di mia proprietà, di cui né Firbo né Quantorzo gli avevano mai richiesto la pigione. Ora questa catapecchia appunto mi diede il mezzo di tentare su lui il mio primo esperimento.


--------------------------------------------------------------------------------

II. Ma fu totale

Totale, perché bastò muovere in me appena appena, cosí per giuoco, la volontà di rappresentarmi diverso a uno dei centomila in cui vivevo, perché s’alterassero in centomila modi diversi tutte le altre mie realtà.
E per forza questo giuoco, se considerate bene, doveva fruttarmi la pazzia. O per dir meglio, quest'orrore: la coscienza della pazzia, fresca e chiara, signori, fresca e chiara come una mattinata d'aprile, e lucida e precisa come uno specchio.
Perché, incamminandomi verso quel primo esperimento, andavo a pórre graziosamente la mia volontà fuori di me, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca. Volevo compiere un atto che non doveva esser mio, ma di quell'ombra di me che viveva realtà in un altro; cosí solida e vera che avrei potuto togliermi il cappello e salutarla, se per dannata necessità non avessi dovuto incontrarla e salutarla viva, non propriamente in me, ma nel mio stesso corpo, il quale, non essendo per sé nessuno, poteva esser mio ed era mio in quanto rappresentava me a me stesso, ma poteva anche essere ed era di quell'ombra, di quelle centomila ombre che mi rappresentavano in centomila modi vivo e diverso ai centomila altri.
Difatti, non andavo forse incontro al signor Vitangelo Moscarda per giocargli un brutto tiro? Eh! signori, sí, un brutto tiro (scusatemi tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d'ammiccare cosí, perché, non potendo sapere come v'appaio in questo momento, tiro anche, con questi ammiccamenti, a indovinare) cioè, a fargli compiere un atto del tutto contrario a lui e incoerente: un atto che, distruggendo di colpo la logica della sua realtà, lo annientasse cosí agli occhi di Marco di Dio come di tanti altri?
Senza intendere, sciagurato! che la conseguenza d'un simile atto non poteva esser quella che m'immaginavo: di presentarmi cioè a domandare a tutti, dopo:
«Vedete adesso, signori, che non è vero niente che io sia quell'usurajo che voi volete vedere in me?»
Ma quest'altra, invece: che tutti dovessero esclamare, sbigottiti:
«O oh! sapete? l'usurajo Moscarda è impazzito!»
Perché l'usurajo Moscarda poteva sí impazzire, ma non si poteva distruggere cosí d'un colpo, con un atto contrario a lui e incoerente. Non era un'ombra da giocarci e da pigliare a gabbo, l'usurajo Moscarda: un signore era da trattare coi dovuti riguardi, alto un metro e sessantotto, rosso di pelo come papà, il fondatore della banca, con le sopracciglia, sí, ad accento circonflesso e quel naso che gli pendeva verso destra come a quel caro stupido Gengè di mia moglie Dida: un signore, insomma, che Dio liberi, impazzendo, rischiava di trascinarsi al manicomio con sé tutti gli altri Moscarda ch’io ero per gli altri e anche, oh Dio, quel povero innocuo Gengè di mia moglie Dida; e, se permettete, anche me che, leggero e sorridente, ci avevo giocato.
Rischiai, cioè, rischiammo tutti quanti, come vedrete, il manicomio, questa prima volta; e non ci bastò. Dovevamo anche rischiar la vita, perché io mi riprendessi e trovassi alla fine (uno, nessuno e centomila) la via della salute.
Ma non anticipiamo.


--------------------------------------------------------------------------------

III. Atto notarile

Mi recai dapprima nello studio del notaro Stampa, in Via del Crocefisso, numero 24. Perché (eh, questi sono sicurissimi dati di fatto) a dí... dell'anno..., regnando Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della nazione re d'Italia nella nobile città di Richieri, in Via del Crocefisso, al numero civico 24, teneva studio di regio notaro il signor Stampa cavalier Elpidio, d’anni 52 o 53.
«Ci sta ancora? Al numero 24? Lo conoscete tutti il notaro Stampa?»
Oh, e allora possiamo essere sicuri di non sbagliare. Quel notaro Stampa là, che conosciamo tutti. Va bene? Ma io ero, entrando nello studio, in uno stato d'animo, che voi non vi potete immaginare. Come potreste immaginarvelo, scusate, se vi pare ancora la cosa piú naturale del mondo entrare nello studio d'un notaro per stendere un atto qualsiasi, e se dite che lo conoscete tutti questo notaro Stampa?
Vi dico che io ci andavo, quel giorno, per il mio primo esperimento. E insomma, lo volete fare anche voi, sí o no, questo esperimento con me, una buona volta? dico, di penetrare lo scherzo spaventoso che sta sotto alla pacifica naturalezza delle relazioni quotidiane, di quelle che vi paiono le piú consuete e normali, e sotto la quieta apparenza della cosí detta realtà delle cose? Lo scherzo, santo Dio, per cui pure v'accade d'arrabbiarvi ogni cinque minuti e di gridare all’amico che vi sta accanto:
«Ma scusa! ma come non vedi questo? sei cieco?»
E quello no, non lo vede, perché vede un'altra cosa lui, quando voi credete che debba vedere la vostra, come pare a voi. La vede invece come pare a lui, e per lui dunque il cieco siete voi.
Questo scherzo, io dico; com'io già lo avevo penetrato.
Ora entravo io quello studio, carico di tutte le riflessioni e considerazioni covate cosí lungamente; e me le sentivo come friggere dentro, insieme in gran subbuglio; e mi volevo intanto tenere cosí, in una lucida fissità, in una quasi immobile rigidezza, mentre figuratevi in quale risata fragorosa mi veniva di prorompere nel vedermelo davanti serio serio, poverino quel signor notaro Stampa, senza il minimo sospetto ch’io potessi per me non essere quale mi vedeva lui, e sicurissimo d'esser lui per me quello stesso che ogni giorno nell'annodarsi la cravattina nera davanti allo specchio si vedeva, con tutte le sue cose attorno.
Capite adesso? Mi veniva d'ammiccare, d'ammiccare anche di lui, per significargli furbescamente "Bada sotto! Bada sotto!". Mi veniva anche, Dio mio di cacciar fuori all'improvviso la lingua, di smuovere il naso con una subitanea smusatina per alterargli a un tratto, cosí per gioco e senza malizia, quell'immagine di me ch’egli credeva vera. Ma serio eh? Serio, sú, serio.
Dovevo far l'esperimento.
«Dunque, signor notaro, eccomi qua. Ma scusi, lei sta sempre sprofondato in questo silenzio?»
Si voltò brusco a quadrarmi. Disse:
«Silenzio. Dove?»
Per Via del Crocefisso era difatti in quel momento un continuo transito di gente e di vetture.
«Già; non nella via, certo. Ma ci sono qua tutte queste carte, signor notaro, dietro i vetri impolverati di questi scaffali. Non sente?
Tra turbato e stordito, tornò a squadrarmi; poi tese l'orecchio:
«Che sento?»
«Ma questo raspío! Ah, le zampine, scusi, le zampine lí del suo canarino; scusi scusi. Sono unghiute quelle zampine e raspando su lo zinco della gabbia...»
«Già. Sí. Ma che vuol dire?»
«Oh, niente. Non le dà ai nervi, a lei, lo zinco, signor notaro?»
«Lo zinco? Ma chi ci bada? Non l'avverto...»
Eppure, lo zinco, pensi! in una gabbia, sotto le gracili zampine d'un canarino, nello studio d'un notaro... Ci scommetto che non canta, questo canarino.»
«Nossignore, non canta.»
Cominciava a guardarmi in un certo modo il signor notaro che stimai prudente lasciar lí il canarino per non compromettere l'esperimento; il quale, almeno in principio, e segnatamente lí, alla presenza del notaro aveva bisogno che nessun dubbio sorgesse sulle mie facoltà mentali. E domandai al signor notaro se sapesse d'una certa casa, sita in via tale numero tale, di pertinenza d'un certo tale signor Moscarda Vitangelo, figlio del fu Francesco Antonio Moscarda...
«E non è lei?»
«Già, io sí. Sarei io...»
Era cosí bello peccato! in quello studio di notaro, tra tutti quegli incartamenti ingialliti in quei vecchi scaffali polverosi, parlare cosí, come a una distanza di secoli, d'una certa casa di pertinenza d'un certo tal Moscarda Vitangelo... Tanto piú che, sí, ero io lí; presente e stipulante, in quello studio di notaro ma chi sa come e dove se lo vedeva lui, il signor notaro, quel suo studio; che odore ci sentiva diverso da quello che ci sentivo io; e chi sa come e dov'era, nel mondo del signor notaro, quella certa casa di cui gli parlavo con voce lontana e io, io, nel mondo del signor notaro, chi sa come curioso...
Ah, il piacere della storia, signori! Nulla piú riposante della storia. Tutto nella vita vi cangia continuamente sotto gli occhi; nulla di certo; e quest'ansia senza requie di sapere come si determineranno i casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che vi tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione! Tutto determinato, tutto stabilito, all'incontro, nella storia: per quanto dolorose le vicende e tristi i casi, eccoli lí, ordinati, almeno, fissati in trenta, quaranta paginette di libro: quelli, e lí; che non cangeranno mai piú almeno fino a tanto che un malvagio spirito critico non avrà la mala contentezza di buttare all'aria quella costruzione ideale, ove tutti gli elementi si tenevano a vicenda cosí bene congegnati, e voi vi riposavate ammirando come ogni effetto seguiva obbediente alla sua causa con perfetta logica e ogni avvenimento si svolgeva preciso e coerente in ogni suo particolare, col signor duca di Nevers, che il giorno tale, anno tale, ecc. ecc.
Per non guastare tutto, dovetti ricondurmi alla sospesa, temporanea e costernata realtà del signor notaro Stampa.
«Io, già,» m'affrettai a dirgli. «Sarei io, signor notaro. E la casa, lei non ha difficoltà, è vero? ad ammettere che è mia, come tutta l'eredità del fu Francesco Antonio Moscarda mio padre. Già! E che è sfitta adesso questa casa, signor notaro. Oh piccola, sa... Saranno cinque o sei stanze, con due corpi bassi - si dice cosí? - Belli, i corpi bassi... Sfitta dunque, signor notaro; da poterne disporre a piacer mio. Ora dunque lei...»
E qui mi chinai e a bassa voce, con molta serietà, confidai al signor notaro l'atto che intendevo fare e che qui, per ora, non posso riferire, perché - gli dissi:
«Deve restare tra me e lei, signor notaro, sotto il segreto professionale, fintanto che parrà a me. Siamo intesi?»
Intesi. Ma il signor notaro mi avvertí che per fare quell'atto gli bisognavano alcuni dati e documenti per cui mi toccava andare al banco, da Quantorzo. Mi sentii contrariato; tuttavia m'alzai. Come mi mossi, una maledetta voglia mi sorse di domandare al signor notaro:
«Come cammino? Scusi: mi sappia dire almeno come mi vede camminare!»
Mi trattenni a stento. Ma non potei fare a meno di voltarmi, nell'aprir l'uscio a vetri, e di dirgli con un sorriso di compassione:
«Già, col mio passo, grazie!»
«Come dice?» domandò, stordito, il signor notaro.
«Ah, niente, dico che me ne vado col mio passo, signor notaro. Ma sa che una volta io ho veduto ridere un cavallo? Sissignore, mentre il cavallo camminava. Lei ora va a guardare il muso a un cavallo per vederlo ridere, e poi viene a dirmi che non l'ha visto ridere. Ma che muso! I cavalli non ridono mica col muso! Sa con che cosa ridono i cavalli, signor notaro? Con le natiche. Le assicuro che il cavallo camminando ride con le natiche, sí, alle volte, di certe cose che vede o che gli passano per il capo. Se lei vuol vederlo ridere il cavallo, gli guardi le natiche e si stia bene!»
Capisco che non c'entrava dirgli cosí. Capisco tutto io. Ma se mi rimetto nelle condizioni d'animo in cui mi trovavo allora, che a vedermi addosso gli occhi della gente mi pareva di sottostare a un'orribile sopraffazione pensando che tutti quegli occhi mi davano un'immagine che non era certo quella che io mi conoscevo ma un'altra che io non potevo né conoscere né impedire; altro che dirle, mi veniva di farle, di farle, le pazzie, come rotolarmi per le strade o sorvolarle a passo di ballo, ammiccando di qua, cacciando fuori la lingua e facendo sberleffi di là... E invece andavo cosí serio, cosí serio, io, per via. E anche voi, che bellezza, andate tutti cosí serii...


--------------------------------------------------------------------------------

IV. La strada maestra

Mi toccò dunque andare al banco per quelle carte della casa di cui aveva bisogno il signor notaro.
Erano mie quelle carte, senza dubbio, poiché mia era la casa, e potevo disporne. Ma se ci pensate bene, quelle carte, benché mie, non avrei potuto averle se non di furto o strappandole di mano con violenza pazzesca a un altro che agli occhi di tutti n'era il legittimo proprietario: voglio dire al signor usurajo Vitangelo Moscarda.
Per me, questo, era evidente, perché io lo vedevo bene fuori, vivo negli altri e non in me, quel signor usurajo Vitangelo Moscarda. Ma per gli altri che in me non vedevano invece se non quell'usurajo per gli altri io, là al banco, andavo a rubarle a me stesso quelle carte o a strapparmele di mano pazzescamente.
Potevo dir forse che non ero io? o che io ero un altro? Né era in nessun modo da ragionare un atto che agli occhi di tutti voleva appunto apparire contrario a me stesso e incoerente.
Seguitavo a camminare, come vedete, con perfetta coscienza su la strada maestra della pazzia, che era la strada appunto della mia realtà, quale mi s'era ormai lucidissimamente aperta davanti, con tutte le immagini di me, vive, specchiate e procedenti meco.
Ma io ero pazzo perché ne avevo appunto questa precisa e specchiante coscienza, voi che pur camminate per questa medesima strada senza volervene accorgere, voi siete savii, e tanto piú quanto piú forte gridate a chi vi cammina accanto:
«Io, questo? io, cosí? Tu sei cieco! tu sei pazzo!»


--------------------------------------------------------------------------------

V. Sopraffazione

Il furto, intanto, non era possibile, almeno lí per lí. Non sapevo dove stessero quelle carte. L'ultimo dei subalterni di Quantorzo o di Firbo era in quella banca piú padrone di me. Quando vi entravo, invitato per la firma, gl'impiegati non alzavano nemmeno gli occhi dai loro registri, e se qualcuno mi guardava, chiarissimamente con lo sguardo dimostrava di non tenermi in nessun conto.
Eppure lí lavoravano tutti con tanto zelo per me, per ribadire sempre piú con quel loro assiduo lavoro il tristo concetto che in paese si aveva di me, ch’io fossi un usurajo. E a nessuno passava per il capo ch’io potessi di quel loro zelo, non che esser grato e disposto a compiacerli della mia lode, sentirmi offeso.
Ah che rigido e attediato squallore in quella banca! Tutti quei tramezzi vetrati che correvano lungo i tre stanzoni in fila, tramezzi di vetro diacciato, con cinque sportellini gialli in ciascuno, come gialla era la cornice e gialla l'intelaiatura delle ampie lastre; e qua e là macchie d'inchiostro, qua e là qualche striscia di carta incollata sulla rottura d'una lastra; e il pavimento di vecchi mattoni di terracotta, strusciato in mezzo, lungo la fila dei tre stanzoni; strusciato davanti a ogni sportellino: triste corridojo, con quei vetri dei tramezzi di qua e i vetri delle due ampie finestre di là, per ogni stanzone, impolverati; e quelle filze di cifre nei muri, a penna, a lapis, sopra i tavolini sporchi d'inchiostro, tra una finestra e l'altra, sotto le cornici scrostate di certe telacce affumicate qua e là gonfie e polverose, appese lí; e un tanfo di vecchio da per tutto, misto con quello acre della carta dei registri e con quell’alido esalante da un forno giú a pianterreno. E la malinconia disperata di quelle poche seggiole d'antica foggia, presso i tavolini, su cui nessuno sedeva, che tutti scostavano e lasciavano lí, fuori di posto, dove e come per quelle povere seggiole inutili era certo un'offesa e una pena esser lasciate.
Tante volte, entrando, m'era venuto di far notare:
«Ma perché queste seggiole? Che condanna è la loro, di stare qua, se nessuno se ne serve?
Me n'ero trattenuto, non già perché avessi avvertito a tempo che in un luogo come quello la pietà per le seggiole avrebbe fatto strabiliare tutti e rischiavo fors’anche d'apparir cinico: me n'ero trattenuto, avvertendo invece che avrei fatto ridere di me per quel badare a una cosa che certamente sarebbe sembrata stravagante a chi sapeva quanto poco badassi agli affari.
Quel giorno, entrando, trovai i commessi affollati nell'ultimo stanzone, che si squaccheravano di tanto in tanto in risate assistendo a un diverbio tra Stefano Firbo e un certo Turolla, burlato da tutti anche per il modo con cui si vestiva.
Una giacca lunga, diceva quel povero Turolla, a lui cosí corto, lo avrebbe fatto sembrare piú corto. E diceva bene. Ma non s’accorgeva intanto, cosí tracagnotto e serio serio, con quei mustacchioni da brigadiere, come gli stava ridicola di dietro la giacchettina accorciata, che gli scopriva le natiche sode.
Ora lí lí per piangere, avvilito, congestionato, frustato dalle risate dei colleghi, alzava un braccino e badava a dire a Firbo:
«Oh Dio, come le piglia lei le parole!»
Firbo gli era sopra e gli gridava in faccia, scrollandolo furiosamente per quel braccio levato:
«Ma che conosci? che conosci? tu neanche lo conosci; eppure ti somiglia!»
Come venni a sapere che si trattava di un tale che aveva chiesto un prestito alla banca, presentato appunto dal Turolla che diceva di conoscerlo per un brav'uomo, mentre Firbo sosteneva il contrario, mi sentii stravolgere da un impeto di ribellione.
Ignorando la tortura segreta del mio spirito, nessuno poté intenderne la ragione, e tutti restarono quasi basiti quand'io, strappando indietro due o tre di quei commessi:
«E tu?» gridai a Firbo, «che conosci tu? con qual diritto vuoi importi cosí a un altro?»
Firbo si voltò sbalordito a guardarmi e, quasi non credendo a se stesso nel vedermi cosí addosso, gridò:
«Sei pazzo?»
Mi venne, non so come, di buttargli in faccia una risposta ingegnosa, che agghiacciò tutti:
«Sí; come tua moglie, che ti conviene tener chiusa al manicomio!»
Mi si parò davanti pallido e convulso:
«Com'hai detto? Mi conviene?»
Diedi una spallata e seccato dello sgomento che teneva tutti e, nello stesso tempo, entro di me come improvvisamente assordito dalla coscienza dell'inopportunità di quella mia intromissione, gli risposi piano, per troncare:
«Ma sí, lo sai bene.»
E non potei udire, come se dopo queste parole fossi diventato subito, non so, di pietra, ciò che Firbo mi gridò tra i denti prima di scappar via sulle furie. So che sorridevo mentre Quantorzo, sopravvenuto all'alterco, mi trascinava via con sé nella stanzetta della direzione. Sorridevo per dimostrare che di quella violenza non c'era piú bisogno e che tutto era finito, quantunque sentissi bene in me, che in quel momento, pur mentre sorridevo, avrei potuto uccidere qualcuno, tanto la concitata severità di Quantorzo mi irritava. Nella stanzetta della direzione mi misi a guardare intorno, stupito io stesso che lo strano stordimento in cui ero cosí di colpo caduto non m'impedisse di percepire lucidamente e precisamente le cose, fin quasi ad avere la tentazione di riderne, uscendo apposta, tra quella fiera riprensione che Quantorzo mi dava, in qualche domanda di curiosità infantile su questo o quell'oggetto della stanza. E intanto, non so, quasi automaticamente pensavo che a Stefano Firbo, da piccolo, avevano dato i bottoni alla schiena e che sebbene la gobba non gli si vedesse, tutta la cassa del corpo era però da gobbo: eh sí, su quelle esili e lunghe zampe da uccello: ma elegante; sí sí: un falso gobbo elegante; ben riuscito.
E, cosí pensando, mi parve chiaro tutt'a un tratto ch’egli dovesse valersi della sua non comune intelligenza per vendicarsi contro tutti coloro che, da piccoli, non avevano avuto come lui i bottoni alla schiena.
Pensavo queste cose, ripeto, come se le pensasse un altro in me, quello che d'improvviso era diventato cosí stranamente freddo e svagato, non tanto per opporre a difesa, se occorresse, quella freddezza, quanto per rappresentare una parte, dietro la quale mi conveniva tenere ancora nascosto ciò che della spaventosa verità, che già mi s’era chiarita, m'avveniva sempre piú di scoprire:
"Ma sí! è qui tutto," pensavo, "in questa sopraffazione. Ciascuno vuole imporre agli altri quel mondo che ha dentro, come se fosse fuori, e che tutti debbano vederlo a suo modo, e che gli altri non possano esservi se non come li vede lui."
Mi ritornavano davanti agli occhi le stupide facce di tutti quei commessi, e seguitavo a pensare:
"Ma sí! Ma sí! Che realtà può essere quella che la maggioranza degli uomini riesce a costituire in sé? Misera, labile, incerta. E i sopraffattori, ecco, ne approfittano! O piuttosto, s’illudono di poterne profittare, facendo subire o accettare quel senso e quel valore ch’essi dànno a se stessi, agli altri, alle cose, per modo che tutti vedano e sentano, pensino e parlino a modo loro."
Mi levai da sedere; m'avvicinai alla finestra con un gran refrigerio; poi mi voltai verso Quantorzo che, interrotto nel meglio del suo discorso, stava a guardarmi con tanto d'occhi; e, seguitando il pensiero che mi torturava, dissi:
«Ma che! ma che! s’illudono!»
«Chi s’illude?»
«Quelli che vogliono sopraffare il signor Firbo, per esempio! S’illudono perché in verità poi, caro mio, non riescono a imporre altro che parole. Parole, capisci. parole che ciascuno intende e ripete a suo modo. Eh, ma si formano pure cosí le cosiddette opinioni correnti! E guai a chi un bel giorno si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono. Per esempio: usurajo! Per esempio: pazzo! Ma di’ un po': come si può star quieti a pensare che c'è uno che s’affanna a persuadere agli altri che tu sei come ti vede lui, e a fissarti nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di te e ad impedire che gli altri ti vedano e ti giudichino altrimenti?
Ebbi appena il tempo di notare lo sbalordimento di Quantorzo, che mi rividi davanti Stefano Firbo. Gli scorsi subito negli occhi che m'era diventato in pochi istanti nemico. E nemico subito anch’io, allora; nemico, perché non capiva che, se crude erano state le mie parole, il sentimento che poc'anzi aveva fatto impeto in me, non era contro di lui direttamente; tanto vero che di quelle parole ero pronto a chiedergli scusa. Già come ubriaco, feci di piú. Com'egli, venendomi a petto, torbido e minaccioso, mi disse:
«Voglio che tu mi renda conto di ciò che hai detto per mia moglie!»
M'inginocchiai.
«Ma sí! Guarda!» gli gridai, «cosí!»
E toccai con la fronte il pavimento.
Ebbi subito orrore del mio atto, o meglio, ch’egli potesse credere con Quantorzo che mi fossi inginocchiato per lui. Li guardai ridendo, e tónfete, tónfete, ancora due volte a terra, la fronte.
«Tu, non io, capisci? davanti a tua moglie, capisci? dovresti star cosí! E io, e lui, e tutti quanti, davanti ai cosí detti pazzi, cosí!»
Balzai in piedi, friggendo. I due si guardarono negli occhi, spaventati. L'uno domandò all'altro:
«Ma che dice?»
«Parole nuove!» gridai. «Volete ascoltarle? Andate, andate là, dove li tenete chiusi: andate, andate a sentirli parlare! Li tenete chiusi perché cosí vi conviene!»
Afferrai Firbo per il bavero della giacca e lo scrollai, ridendo:
«Capisci, Stefano? Non ce l'ho mica soltanto con te! Tu ti sei offeso. No, caro mio! Che diceva di te tua moglie? Che sei un libertino, un ladro, un falsario, un impostore, e che non fai altro che dire bugie! Non è vero. Nessuno può crederlo. Ma prima che tu la chiudessi, eh? stavamo tutti ad ascoltarla, spaventati. Vorrei sapere perché!»
Firbo mi guardò appena, si voltò a Quantorzo come a chiedergli consiglio con scimunita angustia e disse:
«Oh bella! Ma appunto perché nessuno poteva crederlo!»
«Ah no, caro!» gli gridai. «Guardami bene negli occhi!»
«Che intendi dire?»
«Guardami negli occhi!» gli ripetei. «Non dico che sia vero! Stai tranquillo.»
Si sforzò a guardarmi, smorendo.
«Lo vedi?» gli gridai allora, «lo vedi? tu stesso! lo hai anche tu, ora, lo spavento negli occhi!»
«Ma perché mi stai sembrando pazzo!» mi urlò in faccia, esasperato.
Scoppiai a ridere, e risi a lungo, a lungo, senza potermi frenare, notando la paura, lo scompiglio che quella mia risata cagionava a tutt'e due.
M'arrestai d'un tratto, spaventato a mia volta dagli occhi con cui mi guardavano. Quel che avevo fatto, quel che dicevo non aveva certo né ragione né senso per loro. Per ripigliarmi, dissi bruscamente:
«Alle corte. Ero venuto qua, oggi, per domandarvi conto d'un certo Marco di Dio. Vorrei sapere com'è che costui da anni non paga piú la pigione, e ancora non gli si fanno gli atti per cacciarlo via. »
Non m'aspettavo di vederli cascare, a questa domanda, in un piú grande stupore. Si guardarono come per trovare ciascuno nella vista dell'altro un sostegno che li aiutasse a sorreggere l'impressione che ricevevano di me, o piuttosto, d'un essere sconosciuto che insospettatamente scoprivano in me all'improvviso.
«Ma che dici? che discorsi fai?» domandò Quantorzo.»
«Non vi raccapezzate? Marco di Dio. Paga o non paga la pigione?»
Seguitarono a guardarsi a bocca aperta. Scoppiai di nuovo a ridere; poi d'un tratto mi feci serio e dissi come a un altro che mi stésse di fronte, spuntato lí per lí davanti a loro:
«Quando mai tu ti sei occupato di codeste cose?»
Piú che mai stupiti, quasi atterriti, rivolsero gli occhi a cercare in me chi aveva proferito le parole ch’essi avevano pensato e che stavano per dirmi. Ma come! Le avevo dette io?
«Sí» seguitai, serio. «Tu sai bene che tuo padre lo lasciò lí per tanti anni senza molestarlo, questo Marco di Dio. Come t'è venuto in mente, adesso?»
Posai una mano su la spalla di Quantorzo e con un'altr'aria, non meno seria, ma gravata d'un'angosciosa stanchezza, soggiunsi:
«T'avverto, caro mio, che non sono mio padre.»
Poi mi voltai a Firbo e, posandogli l'altra mano sulla spalla:
«Voglio che tu gli faccia subito gli atti. Lo sfratto immediato. Il padrone sono io, e comando io. Voglio poi l'elenco delle mie case con gli incartamenti di ciascuna. Dove sono?» Parole chiare. Domande precise. Marco di Dio. Lo sfratto. L'elenco delle case. Gl'incartamenti. Ebbene, non mi capivano. Mi guardavano come due insensati. E dovetti ripetere piú volte quel che volevo e farmi condurre allo scaffale dove si trovava l'incartamento di quella casa che bisognava al notaro Stampa. Quando fui nello stanzino ov'era quello scaffale, presi per le braccia Firbo e Quantorzo, che mi avevano condotto lí come due automi, e li misi fuori, richiudendo l'uscio alle loro spalle.
Sono sicuro che dietro quell'uscio rimasero ancora un pezzo a guardarsi negli occhi, istupiditi, e che poi uno disse all'altro:
«Dev'essersi impazzito!»


--------------------------------------------------------------------------------

VI. Il furto

Quello scaffale, appena fui solo, mi occupò subito, come un incubo. Proprio come viva per sé ne avvertii la presenza ingombrante, d'antico inviolato custode di tutti gli incartamenti di cui era gravido, cosí vecchio, pesante e tarlato.
Lo guardai, e subito mi guardai attorno, con gli occhi bassi.
La finestra; una vecchia seggiola impagliata; un tavolino ancora piú vecchio, nudo, nero e coperto di polvere; non c'era altro lí dentro.
E la luce filtrava squallida dai vetri cosí intonacati di ruggine e polverosi, che lasciavano trasparire appena le sbarre dell'inferriata e i primi tegoli sanguigni d'un tetto, su cui la finestra guardava i tegoli di quel tetto, il legno verniciato di quelle imposte di finestra, quei vetri per quanto sudici: immobile calma delle cose inanimate.
E pensai all'improvviso che le mani di mio padre s’erano levate cariche d'anelli lí dentro a prendere gl'incartamenti dai palchetti di quello scaffale; e le vidi, come di cera, bianche, grasse, con tutti quegli anelli e i peli rossi sul dorso delle dita; e vidi gli occhi di lui, come di vetro, azzurri e maliziosi, intenti a cercare in quei fascicoli.
Allora, con raccapriccio, a cancellare lo spettro di quelle mani, emerse ai miei occhi e si impose lí, solido, il volume del mio corpo vestito di nero; sentii il respiro affrettato di questo corpo entrato lí per rubare; e la vista delle mie mani che aprivano gli sportelli di quello scaffale mi diede un brivido alla schiena. Serrai i denti; mi scrollai; pensai con rabbia:
«Dove sarà, tra tanti incartamenti, quello che mi serve?»
E tanto per far subito qualche cosa, cominciai a tirar giú a bracciate i fascicoli e a buttarli sul tavolino. A un certo punto le braccia mi s’indolenzirono, e non seppi se dovessi piangerne o riderne. Non era uno scherzo quel rubare a me stesso?
Tornai a guardarmi intorno, perché improvvisamente non mi sentii piú, là dentro, sicuro di me. Stavo per compiere un atto. Ma ero io? Mi risalí l'idea che fossero entrati lí tutti gli estranei inseparabili da me, e che stéssi a commettere quel furto con mani non mie.
Me le guardai.
Sí: erano quelle che io mi conoscevo. Ma appartenevano forse soltanto a me?
Me le nascosi subito dietro la schiena; e poi, come se non bastasse, serrai gli occhi.
Mi sentii in quel bujo una volontà che si smarriva fuori d'ogni precisa consistenza; e n'ebbi un tale orrore, che fui per venir meno anche col corpo; protesi istintivamente una mano per sorreggermi al tavolino; sbarrai gli occhi:
«Ma sí! ma sí!» dissi. «Senza nessuna logica! senza nessuna logica! cosí!»
E mi diedi a cercare tra quelle carte.
Quanto cercai? Non so. So che quella rabbia di nuovo cedette a un certo punto, e che una piú disperata stanchezza mi vinse, ritrovandomi seduto sulla seggiola davanti a quel tavolino, tutto ormai ingombro di carte ammonticchiate, e con un'altra pila di carte io stesso qua sulle ginocchia, che mi schiacciava. Vi abbandonai la testa e desiderai desderai proprio di morire, se questa disperazione era entrata in me da non poter piú lasciare di condurre a fine quell'impresa inaudita.
E ricordo che lí, con la testa appoggiata sulle carte, tenendo gli occhi chiusi forse a frenar le lagrime, udivo come da una infinita lontananza, nel vento che doveva essersi levato fuori, il lamentoso chioccolare d'una gallina che aveva fatto l'uovo e che quel chioccolío mi richiamò a una mia campagna, dove non ero piú stato fin dall'infanzia; se non che, vicino, di tratto in tratto, m'irritava lo scricchiolío dell'imposta della finestra urtata dal vento. Finché due picchi all'uscio inattesi non mi fecero sobbalzare. Gridai con furore:
«Non mi seccate!»
E subito mi ridiedi a cercare accanitamente.
Quando alla fine trovai il fascicolo con tutti gl'incartamenti di quella casa, mi sentii come liberato; balzai in piedi esultante, ma subito dopo mi voltai a guardar l'uscio. Fu cosí rapido questo cangiamento dall'esultanza al sospetto, che mi vidi - e n'ebbi un brivido. Ladro! Rubavo. Rubavo veramente. Andavo a mettermi con le spalle contro quell'uscio; mi sbottonavo il panciotto; mi sbottonavo il petto della camicia e vi cacciavo dentro quel fascicolo ch’era abbastanza voluminoso.
Uno scarafaggio non ben sicuro sulle zampe sbucò in quel punto di sotto lo scaffale, diretto verso la finestra. Vi fui subito sopra col piede e lo schiacciai.
Col volto strizzato dallo schifo, rimisi alla rinfusa tutti gli altri incartamenti dentro lo scaffale, e uscii dallo stanzino.
Per fortuna Quantorzo, Firbo e tutti i commessi erano già andati via; c'era solo il vecchio custode, che non poteva sospettare di nulla.
Provai nondimeno il bisogno di dirgli qualche cosa:
«Pulite per terra là dentro: ho schiacciato uno scarafaggio.»
E corsi in Via del Crocefisso allo studio del notaro Stampa.


--------------------------------------------------------------------------------

VII. Lo scoppio

Ho ancora negli orecchi lo scroscio dell'acqua che cade da una grondaia presso il fanale non ancora acceso, davanti alla catapecchia di Marco di Dio, nel vicolo già bujo prima del tramonto; e vedo lí ferma lungo i muri, per ripararsi dalla pioggia, la gente che assiste allo sfratto e altra gente che, sotto gli ombrelli, s’arresta per curiosità vedendo quella ressa e il mucchio delle misere suppellettili sgomberate a forza ed esposte alla pioggia lí davanti alla porta tra le strida della signora Diamante che, di tratto in tratto, scarmigliata, viene anche alla finestra a scagliare certe sue strane imprecazioni accolte con fischi e altri rumori sguaiati dai monellacci scalzi i quali senza curarsi della pioggia, ballano attorno a quel mucchio di miseria, facendo schizzar l'acqua delle pozze addosso ai piú curiosi, che ne bestemmiano. E i commenti:
«Piú schifoso del padre!»
«Sotto la pioggia, signori miei! Non ha voluto aspettare neanche domani!»
«Accanirsi cosí contro un povero pazzo!»
«Usurajo! usurajo!»
Perché io sono lí, presente, apposta, allo sfratto, protetto da un delegato e da due guardie.
«Usurajo! usurajo!»
E ne sorrido. Forse, sí, un pò pallido. Ma pure con una voluttà che mi tiene sospese le viscere e mi solletica l'ugola e mi fa inghiottire. Solo che, di tanto in tanto, sento il bisogno d'attaccarmi con gli occhi a qualche cosa, e guardo quasi con indolenza smemorata l'architrave della porta di quella catapecchia, per isolarmi un po' in quella vista, sicuro che a nessuno, in un momento come quello, potrebbe venire in mente d'alzar gli occhi per il piacere d'accertarsi che quello è un malinconico architrave, a cui non importa proprio nulla dei rumori della strada: grigio intonaco scrostato, con qualche sforacchiatura qua e là, che non prova come me il bisogno d'arrossire quasi per un'offesa al pudore per conto d'un vecchio orinale sgomberato con gli altri oggetti dalla catapecchia ed esposto lí alla vista di tutti, su un comodino in mezzo alla strada.
Ma per poco non mi costò caro questo piacere di alienarmi. Finito lo sgombero forzato, Marco di Dio, uscendo con sua moglie Diamante dalla catapecchia e scorgendomi nel vicolo tra il delegato e le due guardie, non poté tenersi, e mentre stavo a fissar quell'architrave, mi scagliò contro il suo vecchio mazzuolo di sbozzatore. M'avrebbe certo accoppato, se il delegato non fosse stato pronto a tirarmi a sé. Tra le grida e la confusione, le due guardie si lanciarono per trarre in arresto quello sciagurato messo in furore dalla mia vista; ma la folla cresciuta lo proteggeva e stava per rivoltarsi contro me, allorché un nero omiciattolo, malandato ma d'aspetto feroce, giovine di studio del notaro Stampa, montato su di un tavolino là tra il mucchio delle suppellettili sgomberate in mezzo al vicolo, quasi saltando e con furiosi gesticolamenti, si mise a urlare:
«Fermi! Fermi! State a sentire! Vengo a nome del notaro Stampa! State a sentire! Marco di Dio! Dov'è Marco di Dio? Vengo a nome del notaro Stampa ad avvertirlo che c'è una donazione per lui! Quest'usurajo Moscarda...»
Ero, non saprei dir come, tutto un fremito, in attesa del miracolo: la mia trasfigurazione, da un istante all'altro, agli occhi di tutti. Ma all'improvviso quel mio fremito fu come tagliuzzato in mille parti e tutto il mio essere come scaraventato e disperso di qua e di là a un'esplosione di fischi acutissimi, misti a urla incomposte e a ingiurie di tutta quella folla al mio nome, non potendosi capire che la donazione l'avessi fatta io, dopo la feroce crudeltà dello sgombero forzato.
«Morte! Abbasso!» urlava la folla. «Usurajo! usurajo!»
Istintivamente, avevo alzato le braccia per far segno d'aspettare - ma mi vidi come in un atto d'implorazione e le riabbassai subito, mentre quel giovine di studio sul tavolino, sbracciandosi per imporre silenzio, seguitava a gridare:
«No! No! State a sentire! L'ha fatta lui, L'ha fatta lui, presso il notaro Stampa, la donazione! La donazione d'una casa a Marco di Dio!
Tutta la folla, allora, trasecolò. Ma io ero quasi lontano, disilluso, avvilito. Quel silenzio della folla, nondimeno, m'attrasse, come quando s’appicca il fuoco a un mucchio di legna, che per un momento non si vede e non si ode nulla, e poi qua un tútolo, là una stipa scattano, schizzano, e infine tutta la fascina crèpita lingueggiando di fiamme tra il fumo:
«Lui?» «Una casa?» «Come?» «Che casa?» «Silenzio!» «Che dice?» Queste e altrettali domande cominciarono a scattar dalla folla, propagando rapidamente un vocío sempre piú fitto e confuso, mentre quel giovane di studio confermava:
«Sí, sí, una casa! la sua casa in Via dei Santi 15. E non basta! Anche la donazione di diecimila lire per l'impianto e gli attrezzi d'un laboratorio!
Non potei vedere quel che seguí; mi tolsi di goderne, perché mi premeva in quel momento di correre altrove. Ma seppi di lí a poco qual godimento avrei avuto, se fossi rimasto.
M'ero nascosto nell'àndito di quella casa in Via dei Santi, in attesa che Marco di Dio venisse a pigliarne possesso. Arrivava appena, in quell'àndito, il lume della scala. Quando, seguíto ancora da tutta la folla, egli aprí la porta di strada con la chiave consegnatagli dal notaro, e mi scorse lí addossato al muro come uno spettro, per un attimo si scontraffece, arretrando; mi lanciò con gli occhi atroci uno sguardo, che non dimenticherò mai piú; poi, con un arrangolío da bestia, che pareva fatto insieme di singhiozzi e di risa, mi saltò addosso frenetico, e prese a gridarmi, non so se per esaltarmi o per uccidermi, sbattendomi contro al muro:
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!»
Era lo stesso grido dl tutta la folla lí davanti la porta:
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!»
Perché avevo voluto dimostrare, che potevo, anche per gli altri non essere quello che mi si credeva.


Edited by camillamencarelli - 15/5/2005, 14:50
 
Top
camillamencarelli
view post Posted on 15/5/2005, 13:51




LIBRO QUINTO

I. Con la coda fra le gambe

Mi valse, per fortuna, almeno lí per lí, la considerazione di Quantorzo, che anche mio padre ai suoi tempi s’era dati "lussi di bontà" come questo mio, commisti d'una certa allegra ferocia; e che, a lui Quantorzo, non era mai passato per il capo di poter proporre che mio padre fosse da chiudere in un manicomio o almeno almeno da interdire come ora Firbo sosteneva a spada tratta si dovesse fare per me, se si voleva salvare il credito della banca, seriamente compromesso da quel mio atto pazzesco.
Oh mio Dio, ma non sapevano tutti in paese che negli affari della banca io non m'ero mai immischiato né punto né poco? Come e perché la minaccia di quel discredito ora? Che aveva da vedere con quel mio atto la banca?
Già. Ma allora cadeva la considerazione di Quantorzo, intesa a ripararmi dietro le spalle di mio padre. Che se pur di tanto in tanto aveva avuto di quegli estri, mio padre; poi nella trattazione degli affari aveva saputo dimostrare cosí bene d'aver la testa a segno, che certo a nessuno poteva venire in mente di chiuderlo in un manicomio o d'interdirlo; mentre la mia dichiarata insipienza e quel mio disinteressamento mi scoprivano invece pazzo da legare e nient'altro, buono soltanto a distruggere scandalosamene ciò che mio padre aveva con nascosta accortezza edificato.
Ah, non c'è che dire, stava tutta dalla parte di Firbo la logica. Ma non stava meno, se vogliamo, dalla parte di Quantorzo, allorché questi (non ne ho il minimo dubbio) gli dovette far notare a quattr'occhi che, essendo io il padrone della banca, quel mio disinteressamento dagli affari e la mia insipienza non erano da assumere come armi contro di me, perché, grazie ad essi appunto, i veri padroni là dentro erano divenuti loro due; e che dunque, via, era meglio non toccare questo tasto e star zitti, almeno fin tanto ch’io non déssi altro segno di voler commettere nuove pazzie.
Altro, segretamente, dal canto mio, avrei potuto far notare a Firbo, se - schiacciato com'ero in quel momento dalla prova or ora fatta - non mi fosse convenuto di starmi con la coda tra le gambe, mentre tra lui e Quantorzo pendeva quella lite, o meglio, mentre ancora rimaneva incerto se ai miei danni dovesse prevalere la brama dell'uno di vendicarsi dell'affronto che gli avevo fatto davanti ai commessi, o non piuttosto l'interessata indulgenza dell'altro.


--------------------------------------------------------------------------------

II. Il riso di Dida

M'ero, mogio mogio, rinchioccito tra le gonnelle di Dida dentro la sorda tranquilla e oziosa stupidità del suo Gengè, perché apparisse chiaro non pure a lei ma a tutti che, se si voleva proprio tenere in conto di pazzia l'atto da me commesso, fosse ritenuto come una pazzia di quel Gengè là, vale a dire piuttosto un vaporoso e momentaneo capriccio da innocuo sciocco.
E intanto alle sgridate ch’ella gli dava, a quel suo Gengè, io mi sentivo ora finir lo stomaco da un avvilimento che non so ridire, ora crepare in corpo da certe risate che non sapevo come trattenere, per l'aspetto che pur dovevo conservare a lui, non già compunto, Dio liberi! ma anzi da cocciuto che non si voleva dare al tutto per vinto, anche riconoscendo che, sí, l'aveva fatta un pò troppo grossa. E la paura, nello stesso tempo, che all'improvviso, non piú contenuta, s’affacciasse da quegli occhi a spiarla di traverso, o prorompesse da quella bocca in qualche orribile grido l'atroce disperazione della mia angoscia segreta e inconfessabile.
Ah, inconfessabile, inconfessabile, perché solo del mio spirito, quell'angoscia, fuori d'ogni forma che potessi fingermi e riconoscere per mia oltre questa qua, per esempio, che mia moglie dava, vera e tangibile in me, a quel suo Gengè che le stava davanti e che non ero io; anche se non potevo piú dire chi fossi io allora, e di chi e dove, fuori di lui, quell’angoscia atroce che mi soffocava.
E tanto ormai, fisso in questo tormento, m'ero alienato da me stesso, che come un cieco davo il mio corpo in mano agli altri, perché ciascuno si prendesse di tutti quegli estranei inseparabili che portavo in me quell'uno che ero per lui e, se voleva, lo bastonasse; se voleva, se lo baciasse; o anche andasse a chiuderlo in un manicomio.
«Qua, Gengè. Siedi qua. Qua, cosí. Guardami bene negli occhi. Come no? Non vuoi guardarmi?»
Ah che tentazione di prenderle il viso tra le mani per costringerla a guardare nell'abisso di due occhi ben altri da quelli da cui voleva essere guardata!
Era lí davanti a me; m'acciuffava con una mano i capelli; mi si metteva a sedere sulle ginocchia; sentivo il peso del suo corpo.
Chi era?
Nessun dubbio in lei ch’io lo sapessi, chi era.
E io avevo intanto orrore dei suoi occhi che mi guardavano ridenti e sicuri; orrore di quelle sue fresche mani che mi toccavano certe ch’io fossi come quei suoi occhi mi vedevano; orrore di tutto quel suo corpo che mi pesava sulle ginocchia, fiducioso nell'abbandono che mi faceva di sé, senza il piú lontano sospetto che non si désse realmente a me, quel suo corpo, e che io, stringendomelo tra le braccia, non mi stringessi con quel suo corpo una che m'apparteneva totalmente, e non un'estranea, alla quale non potevo dire in alcun modo com'era, perché era per me qual'io appunto la vedevo e la toccavo questa – cosí - con questi capelli - e questi occhi - e questa bocca, come nel fuoco del mio amore gliela baciavo; mentre lei la mia, nel suo fuoco cosí diverso dal mio, incommensurabilmente lontano, se tutto per lei, sesso, natura, immagine e senso delle cose, pensieri e affetti che le componevano lo spirito, ricordi, gusti e il contatto stesso della mia ruvida guancia sulla sua delicata, tutto, tutto era diverso; due estranei, stretti cosí - orrore - estranei, non solo l'uno per l'altra, ma ciascuno a se stesso, in quel corpo che l'altro si stringeva.
Voi non lo avete mai provato, quest'orrore, lo so; perché avete sempre e soltanto stretto fra le braccia tutto il vostro mondo nella donna vostra, senza il minimo avvertimento ch’ella intanto si stringe in voi il suo, che è un altro, impenetrabile. Eppure basterebbe, per sentirlo, quest'orrore, che voi pensaste un momento, che so! a un'inezia qualunque, a una cosa che a voi piace e a lei no: un colore, un sapore, un giudizio su una tal cosa; che non vi facessero soltanto pensare superficialmente a una diversità di gusti, di sensazioni o d'opinioni; che gli occhi di lei, mentre voi la guardate, non vedono in voi, e come i vostri, le cose quali voi le vedete, e che il mondo, la vita, la realtà delle cose qual'è per voi, come voi la toccate, non sono per lei che vede e tocca un'altra realtà nelle stesse cose e in voi stesso e in sé, senza che vi possa dire come sia, perché per lei è quella e non può figurarsi che possa essere un'altra per voi.
Mi costò molto dissimulare la freddezza d'un rancore che mi sinduriva nell'animo sempre piú, vedendo che Dida, in fondo, per quanto si sforzasse di far viso fermo, rideva di quello spasso brutale che il suo Gengè s’era preso, evidentemente senza riflettere che non tutti come lei avrebbero compreso ch’egli aveva voluto fare una burla e niente piú.
«Ma guarda un pò, se sono scherzi da fare! Lo sfratto sotto la pioggia; e assistervi, provocando l'indignazione di tutti, scioccone! A momenti t'accoppavano!»
Cosí mi diceva, e voltava la faccia per nascondere il riso che intanto le provocava la vista di quel mio rancore, il quale naturalmente nell'aspetto del suo Gengè, come se lo vedeva ora davanti e come s'immaginava che dovesse essere in quel momento dello sfratto tra l'indignazione di tutti, le appariva dispetto, nient'altro che un buffo dispetto di quel suo "scioccone" a causa della burla mancata e mal compresa.
«Ma che ti figuravi? Ti figuravi che dovessero ridere delle furie di quel pazzo mentre tu gli facevi buttare in mezzo alla strada i suoi cenci sotto la pioggia? E intanto lui - guardàtelo là - si teneva in corpo la sorpresa della donazione! Oh bada che ha ragione il signor Firbo, sai! Cosa da manicomio, uno scherzo di cosí cattivo genere, pagarlo a un cosí caro prezzo. Và là, và là! Pigliati qua Bibí, e pòrtala un pò fuori.»
Mi vedevo mettere in mano il laccetto rosso della cagnolina; vedevo ch’ella si chinava, con la facilità con cui sulle loro anche si chinano le donne, per aggiustare al musetto di Bibí la museruola senza farle male, e restavo lí come un insensato.
«Che fai? Non vai?»
«Vado...»
Chiusa la porta alle mie spalle, m'appoggiavo al muro del pianerottolo con una voglia di mettermi a sedere sul primo scalino, per non rialzarmene mai piú.


--------------------------------------------------------------------------------

III. Parlo con Bibì

E mi vedo, rasente ai muri, per via, che non so piú come né dove guardare, con quella cagnolina dietro, che pare me lo faccia apposta di dare a vedere che, com'io non vorrei andare, cosí non vorrebbe venire con me neanche lei, e si fa tirare pontando le zampine, finché stizzito non le do uno strattone, a rischio di spezzare quel laccetto rosso.
Vado a nascondermi a pochi passi da casa, dentro il recinto d'un terreno venduto per una casa che vi doveva sorgere, grande e chi sa come brutta, a giudicare dalle altre vicine. Il terreno è scavato in parte per le fondamenta; ma i mucchi di terra non sono stati portati via; e qua e là sono sparse tra l'erba ricresciuta folta, le pietre per la fabbrica, come crollate e vecchie prima d'essere usate.
Seggo su una di queste pietre; guardo il muro che para, alto, bianco, stagliato nell'azzurro, della casa accanto. Rimasto scoperto, senza una finestra, tutto cosí bianco e liscio, quel muro, col sole che ci batte sopra, acceca. Abbasso gli occhi qua nell'ombra di quest'erba vana, che respira grassa e calda nel silenzio immobile, tra un brusío d'insetti minuti; c'è un moscone fosco che mi dà addosso, ronzando, irritato dalla mia presenza; vedo Bibí che mi s’è acculata davanti con le orecchie ritte, delusa e sorpresa, come per domandarmi perché siamo venuti qua, in un luogo che non s’aspettava, ove tra l'altro... ma sí, di notte, qualcuno, passando...
«Sí, Bibí,» le dico. «Questo puzzo... Lo sento. Ma mi pare il meno, sai? che possa ormai venirmi dagli uomini. E di corpo. Peggio, quello che esala dai bisogni dell'anima, Bibí. E veramente sei da invidiare, tu che non puoi averne sentore.
La tiro a me per le due zampine davanti, e seguito a parlare cosí.
«Vuoi sapere perché sia venuto a nascondermi qua? Eh, Bibí, perché la gente mi guarda. Ha questo vizio, la gente, e non se lo può levare. Ci dovremmo allora levare tutti quelli di portarci per via, a spasso, un corpo soggetto a essere guardato. Ah, Bibí, Bibí, come faccio? Io non posso piú vedermi guardato neanche da te. Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch’esse appaiano agli altri quali sono per lui; figuriamoci poi se c'è chi pensa che ci siete anche voi bestie che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi e chi sa come li vedete, e che ve ne pare. Io ho perduto, perduto per sempre la realtà mia e quella di tutte le cose negli occhi degli altri, Bibí! Appena mi tocco, mi manco. Perché sotto il mio stesso tatto suppongo la realtà che gli altri mi dànno e ch’io non so né potrò mai sapere. Cosicché, vedi? io - questo che ora ti parla - questo che ora ti tiene cosí sollevate da terra queste due zampine - le parole che ti dico, non so, non so proprio, Bibí, chi te le dica.»
Ebbe a questo punto un soprassalto improvviso, la povera bestiolina, e volle sguizzarmi dalle mani che le reggevano le due zampine. Senza indugiarmi a riflettere se quel soprassalto fosse per lo spavento di quel che le avevo detto, per non spezzargliele, gliele lasciai, e subito allora essa si sfogò abbaiando contro un gatto bianco intravisto tra l'erba in fondo al recinto: se non che il laccetto rosso trascinato tra i piedi in corsa a un tratto le s’impigliò in uno sterpo e le diede un tale strappo, che la fece arrovesciare all'indietro e rotolare come un batuffolo. Friggendo di rabbia si raddrizzò, ma restò puntata su le quattro zampe, non sapendo piú dove avventare la sua furia interrotta: guardò di qua, di là: il gatto non c'era piú.
Starnutò.
Io potei ridere di quella sua corsa, prima, poi di quel capitombolo all'indietro, e ora di vederla restar cosí; tentennai il capo e la richiamai a me. Se ne venne leggera leggera, quasi ballando sulle esili zampine; quando mi fu davanti, levò da sé le due anteriori per appoggiarsi a un mio ginocchio, quasi volesse seguitare il discorso rimasto a mezzo, che invece le piaceva. Eh sí, perché, parlando, io le grattavo la testa dietro le orecchie.
«No no, basta, Bibí» le dissi. «Chiudiamo gli occhi piuttosto.»
E le presi tra le mani la testina. Ma la bestiola si scrollò, per liberarsi; e la lasciai.
Poco dopo, sdraiata ai miei piedi, col musino allungato sulle due zampette davanti, la udii sospirare forte, come se non ne potesse piú dalla stanchezza e dalla noia, che pesavano tanto anche sulla sua vita di povera cagnetta bellina e vezzeggiata.


--------------------------------------------------------------------------------

IV. La vista degli altri

Perché, quand'uno pensa d'uccidersi, s'immagina morto, non piú per sé, ma per gli altri?
Tumido e livido, come il cadavere d'un annegato, rivenne a galla il mio tormento con questa domanda, dopo essermi sprofondato per piú d'un'ora nella meditazione, là in quel recinto, se non sarebbe stato quello il momento di farla finita, non tanto per liberarmi di esso tormento, quanto per fare una bella sorpresa all'invidia che molti mi portavano o anche per dare una prova dell'imbecillità che molti altri m'attribuivano.
E allora, tra le diverse immagini della mia morte violenta, come potevo supporre balzassero improvvise, tra la costernazione e lo sbalordimento, in mia moglie, in Quantorzo, in Firbo, in tanti e tanti altri miei conoscenti; costringendomi a rispondere a quella domanda, mi sentii piú che mai mancare, perché dovetti riconoscere che nei miei occhi non c'era veramente una vista per me, da poter dire in qualche modo come mi vedevo senza la vista degli altri, per il mio stesso corpo e per ogni altra cosa come potevo figurarmi che dovessero vederli; e che dunque i miei occhi, per sé, fuori di questa vista degli altri, non avrebbero piú saputo veramente quello che vedevano.
Mi corse per la schiena il brivido d'un ricordo lontano: di quand'ero ragazzo, che andando sopra pensiero per la campagna m'ero visto a un tratto smarrito, fuori di ogni traccia, in una remota solitudine tetra di sole e attonita; lo sgomento che ne avevo avuto e che allora non avevo saputo chiarirmi. Era questo: l'orrore di qualche cosa che da un momento all’altro potesse scoprirsi a me solo, fuori della vista degli altri.
Sempre che ci avvenga di scoprire qualcosa che gli altri supponiamo non abbiano mai veduta, non corriamo a chiamare qualcuno perché subito la veda con noi?
«Oh Dio, che è?
Ove la vista degli altri non ci soccorra a costituire comunque in noi la realtà di ciò che vediamo, i nostri occhi non sanno più quello che vedono; la nostra coscienza si smarrisce, perché questa che crediamo la cosa più intima nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi; e non possiamo sentirci soli.
Balzai in piedi, esterrefatto. Sapevo, sapevo la mia solitudine; ma ora soltanto ne sentivo e toccavo veramente l'orrore, davanti a me stesso, per ogni cosa che vedevo, se alzavo una mano e me la guardavo. Perché la vista degli altri non è e non può essere nei nostri occhi se non per un'illusione a cui non potevo piú credere; e, in un totale smarrimento, parendomi di vedere quel mio stesso orrore negli occhi della cagnetta che s’era levata anche lei di scatto e mi guardava, per togliermela davanti, quell'orrore, le allungai un calcio; ma subito ai guaiti laceranti della bestiola, mi presi disperatamente la testa tra le mani, gridando:
«Impazzisco! impazzisco!»
Se non che, non so come, in quel gesto di disperazione tornai a vedermi, e allora il pianto che stava per prorompermi dal petto mi si mutò d'improvviso in uno scoppio di riso, e chiamai quella povera Bibí ch’era mezza azzoppata, mi misi a zoppicare anch’io per burla, e tutto in preda a una gaia smania feroce, le dissi che avevo giocato, giocato, e che volevo seguitare a giocare. La bestiolina starnutiva, come per dirmi:
«Rifiuto! rifiuto!»
«Ah sí? Rifiuti, Bibí, rifiuti?
E allora mi misi a starnutire anch’io per rifarle il verso, ripetendo a ogni starnuto:
«Rifiuto! rifiuto!»


--------------------------------------------------------------------------------

V. Il bel giuoco

Un calcio? io? a quella povera bestiolina.
Gliel'aveva appioppato in campagna un certo ragazzaccio smarrito, per non so che strano sgomento da cui era stato invaso, di tutto e di niente: d'un niente che poteva d'improvviso diventare qualche cosa che sarebbe toccato allora di vedere a lui solo.
Qua in città, ora, per via, non c'era piú questo pericolo. Diamine! Ognuno, bello, dentro l'illusione dell'altro, da poter essere sicuri che tutti gli altri sbagliavano se dicevano di no, che cioè ciascuno non era come l'altro lo vedeva.
E mi veniva di gridarlo a tutti quanti:
«Ma sí! Eh eh! Giochiamo, giochiamo!»
E anche di farne segno a chi stava per caso a guardare dai vetri di qualche finestra. Ma sí! Eh eh! Anche aprendo quella finestra per buttarsi di sotto.
«Bel giuoco! E chi sa poi che graziose sorprese, caro signore, cara signora, se, dopo esservi buttati fuori cosí d'ogni illusione per voi, poteste ritornare per un momentino, da morti, a vedere nell'illusione degli altri ancora vivi quel mondo in cui vi figuraste di vivere! Eh eh!»
Il guajo era che ancora da vivo stavo a vederlo io, questo giuoco, tra gli altri ancora vivi: benché non lo potessi penetrare E quest'impossibilità di penetrarlo, pur sapendo ch’era lí negli occhi di tutti, esasperava fino alla ferocia quella mia smania gaia.
Il calcio poc'anzi sparato alla povera bestiolina perché mi guardava, Dio me lo perdoni, mi veniva di spararlo a tutti quanti.


--------------------------------------------------------------------------------

VI. Moltiplicazione e sottrazione

Rientrando in casa, vi trovai Quantorzo in seria confabulazione con mia moglie Dida.
Com'erano a posto, sicuri, seduti tutt'e due nel salottino chiaro in penombra; l’uno grasso e nero, affondato nel divano verde; l’altra esile e bianca nella sua veste tutta a falbalà, in punta in punta e di tre quarti sulla poltrona accanto, con una freccia di sole sulla nuca. Parlavano certo di me, perché, come mi videro entrare, esclamarono a un tempo:
«Oh, eccolo qua!»
E poiché erano due a vedermi entrare, mi venne la tentazione di voltarmi a cercare l'altro che entrava con me, pur sapendo bene che il "caro Vitangelo" del mio paterno Quantorzo non solo era anch’esso in me come il Gengè di mia moglie Dida, ma che io tutto quanto, per Quantorzo, altri non ero che il suo caro Vitangelo, proprio come per Dida altri che il suo "Gengè". Due, dunque, non agli occhi loro, ma soltanto per me che mi sapevo per quei due uno e uno; il che per me, non faceva un piú ma un meno, in quanto voleva dire che ai loro occhi, io come io, non ero nessuno.
Ai loro occhi soltanto? Anche per me, anche per la solitudine del mio spirito che, in quel momento, fuori d'ogni consistenza apparente, concepiva l'orrore di vedere il proprio corpo per sé come quello di nessuno nella diversa incoercibile realtà che intanto gli davano quei due.
Mia moglie, nel vedermi voltare, domandò.
«Chi cerchi?»
M'affrettai a risponderle, sorridendo:
«Ah, nessuno, cara, nessuno. Eccoci qua!»
Non compresero, naturalmente, che cosa intendessi dire con quel "nessuno" cercato accanto a me; e credettero che con quell'"eccoci" mi riferissi anche a loro due, sicurissimi che lí dentro quel salotto fossimo ora in tre e non in nove; o piuttosto, in otto, visto che io - per me stesso - ormai non contavo piú.
Voglio dire:
1. Dida, com'era per sé;
2. Dida, com'era per me;
3. Dida, com'era per Quantorzo;
4. Quantorzo, com'era per sé;
5. Quantorzo, com'era per Dida;
6. Quantorzo, com'era per me;
7. il caro Gengè di Dida;
8. il caro Vitangelo di Quantorzo.
S’apparecchiava in quel salotto, fra quegli otto che si credevano tre, una bella conversazione.


--------------------------------------------------------------------------------

VII. Ma io intanto dicevo tra me

(Oh Dio mio, e non sentiranno ora venir meno a un tratto la loro bella sicurezza, vedendosi guardati da questi miei occhi che non sanno quello che vedono?
Fermarsi per un poco a guardare uno che stia facendo anche la cosa piú ovvia e consueta della vita; guardarlo in modo da fargli sorgere il dubbio che a noi non sia chiaro ciò che egli stia facendo e che possa anche non esser chiaro a lui stesso: basta questo perché quella sicurezza s’aombri e vacilli. Nulla turba e sconcerta piú di due occhi vani che dimostrino di non vederci, o di non vedere ciò che noi vediamo.
«Perché guardi cosí?»
E nessuno pensa che tutti dovremmo guardare sempre cosí, ciascuno con gli occhi pieni dell'orrore della propria solitudine senza scampo).


--------------------------------------------------------------------------------

VIII. Il punto vivo

Quantorzo, difatti, cominciò presto a turbarsi, non appena i suoi occhi s’infrontarono coi miei; a smarrirsi, parlando; tanto che senza volerlo accennava di tratto in tratto di levare una mano, come per dire: "No, aspetta".
Ma non tardai a scoprire l'inganno.
Si smarriva cosí, non già perché il mio sguardo gli facesse vacillare la sicurezza di sé, ma perché gli era parso di leggermi negli occhi che io avessi già compreso la ragione riposta per cui era venuto a farmi quella visita: che era di legarmi mani e piedi, d'intesa con Firbo, protestando che non avrebbe potuto piú fare il direttore della banca, se io intendevo d'arrogarmi il diritto di compiere altri atti improvvisi e arbitrarii, di cui né lui né Firbo avrebbero potuto assumersi la responsabilità.
Allora, certo di questo, mi proposi di sconcertarlo, non però subitaneamente come avevo fatto l'altra volta parlando e gestendo come un pazzo davanti a lui e a Firbo, ma al contrario; per il gusto di vedere come se ne sarebbe andato via, dopo essere venuto cosí fermo in quel proposito; il gusto, dico, che poteva darmi quella sua guerriera fermezza di dimostrarmi ancora una volta, senza che n'avessi piú bisogno, come un nonnulla sarebbe bastato a fargliela crollare: una parola che avrei detta, il tono con cui l'avrei detta, tale da frastornarlo e da fargli cangiar l'animo, e con l'animo, per forza, tutta quella sua solidissima realtà, come ora dentro di sé se la sentiva, e fuori se la vedeva e se la toccava.
Appena mi disse che Firbo specialmente non si poteva dar pace di quanto avevo fatto, gli domandai con un sorriso fatuo, per farlo stizzire:
«Ancora?»
Difatti si stizzí:
«Ancora? caro mio! Ci hai fatto trovare tutti gl'incartamenti dello scaffale in tale scompiglio che gli ci vorranno a dir poco due mesi per rimetterli in ordine.
Mi feci allora molto serio e, rivolto a Dida:
«Vedi, cara, tu che credevi una burla?»
Dida mi guardò subito incerta; poi guardò Quantorzo; poi di nuovo me; e infine domandò, con apprensione:
«Ma insomma, che hai fatto?»
Con la mano le feci segno d'aspettare. Ancora piú serio mi rivolsi a Quantorzo e gli dissi:
«Ha trovato lo scompiglio nello scaffale il signor Firbo? E perché non ti provi ora a domandare, tu a me, che cosa ci ho trovato io?»
Ed ecco che Quantorzo s'agitò sul divano e una ventina di volte batté le pàlpebre come per richiamarsi istintivamente all'attenzione dallo sbalordimento in cui cadeva, piú che per la domanda, per il tono di sfida con cui l'avevo proferita.
«Che... che vi hai trovato?» balbettò.
Risposi subito, accompagnando le parole col gesto:
«Un palmo di polvere: cosí!»
Si guardarono negli occhi, storditi; perché quel tono escludeva che per sciocchezza avessi detto quella cosa in sé sciocca: e nello stordimento Quantorzo ripeté:
«Un palmo di polvere? che significa?»
«Significa, oh bella, che dormivano tutti quegli incartamenti. Da anni! Un palmo, dico un palmo di polvere. E difatti, una casa sfitta; e di quell'altra là, chi sa da quanto tempo non si riscoteva piú la pigione!
Quantorzo - non me l'aspettavo - finse lui questa volta di trasecolare piú che mai:
«Ah,» fece, «e tu allora le svegli cosí, le case: regalandole?»
«No, caro mio,» gli gridai subito, riscaldandomi, un pò, sí, ad arte, ma anche sul serio un pò. «No, caro mio! Per dimostrarvi che v’ingannate di molto ma di molto sul conto mio, tu, Firbo, tutti quanti siete! Parlo, parlo, dico sciocchezze, faccio lo svagato; ma non è vero, sai? perché osservo tutto io, invece; osservo tutto!»
Quantorzo - questa volta sí, come m'aspettavo - tentò di reagire ed esclamò:
«Ma che osservi? Ma fa’ il piacere! La polvere dello scaffale osservi!»
«E le mie mani,» mi venne d'aggiungere subito, non so perché, presentandole: con un tal tono di voce che destò all'improvviso in me stesso un brivido, rivedendomi col pensiero in quello stanzino dello scaffale nell'atto di sollevar le mani per rubare a me stesso l'incartamento, dopo avere immaginato là dentro quelle di mio padre, bianche, grasse, piene di anelli e coi peli rossi sul dorso della dita.
«Vengo alla banca,» seguitai, stanco tutt'a un tratto e nauseato, tra il crescente sbalordimento dell'una e dell'altro, «vengo alla banca solo quando mi chiamate a firmare; ma state attenti che non ho neanche bisogno di venirci, io, alla banca, per sapere tutto ciò che vi si fa.» Guardai di traverso Quantorzo; mi parve pallidissimo. (Ma oh, badiamo, dico sempre quello mio; perché forse il Quantorzo di Dida, no, che seppure anche a Dida sarà parso che il suo impallidisse, avrà forse creduto per isdegno e non per paura, com'io del mio avrei potuto giurare.) A ogni modo, le mani se le portò subito al petto per davvero; e gli occhi, tanto d'occhi sgranò nel domandarmi:
«Che ci tieni dunque le spie? Ah dunque tu diffidi di noi?»
«Non diffido, non diffido; non tengo spie,» m'affrettai a rassicurarlo. «Osservo, fuori, gli effetti delle vostre operazioni; e mi basta. Rispondi a me: tu e Firbo, è vero? seguite nel trattare gli affari le norme di mio padre?»
«Punto per punto!»
«Non ne dubito. Ma siete riparati, voi, dico per la vostra parte, dall'ufficio che tenete: l’uno di direttore, l’altro di consulente legale. Mio padre, per disgrazia, non c'è piú. Vorrei sapere chi risponde degli atti della banca davanti al paese.
«Come, chi risponde?» fece Quantorzo. «Ma noi, noi! E appunto perché ne rispondiamo noi, vorremmo essere sicuri che tu non abbia ancora a immischiartene, intervenendo con certi atti; senti, dico inconsulti per non dire altro!»
Negai prima col dito; poi dissi, placido:
«Non è vero. Voi no; se seguite punto per punto le norme di mio padre. Davanti a me, tutt'al piú, potreste risponderne voi, se non le seguiste e io ve ne domandassi conto e ragione. Ora dico davanti al paese: chi ne risponde? Ne rispondo io che firmo i vostri atti: io! io! E mi devo veder questa: che voi la mia firma sí, la volete sotto tutti gli atti che fate voi; e mi negate poi la vostra per quell'uno che faccio io.»
Doveva essersi impaurito ben bene, perché a questo punto gli vidi dare tre allegri balzi sul divano, esclamando:
«Oh bella! oh bella! oh bella! Ma perché noi, i nostri, sono quelli normali della banca! Mentre il tuo, scusa, me lo fai dire tu, è stato proprio da pazzo! da pazzo!»
Scattai in piedi; gli appuntai l'indice d'una mano contro il petto, come un'arma.
«E tu mi credi pazzo?»
«Ma no!» fece, smorendo subito sotto la minaccia di quel dito.
«No, eh?» gli gridai tenendolo fermo con gli occhi. «Resta intanto assodato questo tra noi, bada!»
Quantorzo, allora, rimasto come a mezz'aria, vagellò; non già perché gli nascesse lí per lí di nuovo il dubbio ch’io potessi anche esser pazzo per davvero, no; ma perché, non comprendendo la ragione per cui mi premeva d'assodare ch’egli non m'aveva per tale, nell'incertezza, temendo un'insidia da parte mia, quasi quasi si pentiva d'aver detto di no cosí in prima, e tentò di disdirsi con un mezzo sorriso.
«No, aspetta... ma devi convenire...»
Che bella cosa! ah che bella cosa! Ora Dida, seguitando a guardare accigliata un pò me e un pò Quartorzo, dava a vedere chiaramente che non sapeva piú che pensare cosí di lui come di me. Quel mio scatto, quella mia domanda a bruciapelo, che per lei – s’intende - erano stati uno scatto e una domanda del suo Gengè; e del tutto incomprensibili come di lui, se non a patto che Quantorzo lí presente e il signor Firbo avessero commesso qualche mancanza cosí enorme da renderlo ora, Dio mio, proprio irriconoscibile il suo Gengè, di fronte al momentaneo smarrimento di Quantorzo; quello scatto, dico, e quella domanda avevano avuto l'effetto di farla dubitare piú che mai della posata assennatezza di quel suo rispettabile Quantorzo. E cosí palesemente esprimeva con gli occhi questo dubbio, che Quantorzo, appena pensò di rivolgersi anche a lei, in quel tentativo di disdirsi col suo mezzo sorriso, piú che piú si smarrí, avvertendo subito che gli mancava accanto una certezza di consenso, su cui finora aveva creduto di potersi fidare.
Scoppiai a ridere; ma né l'uno né l'altra ne indovinarono la ragione; fui tentato di gridargliela in faccia, scrollandoli: "Ma vedete? vedete? E come potete essere allora cosí sicuri se da un minuto all'altro una minima impressione basta a farvi dubitare di voi stessi e degli altri?".
«Lascia andare!» troncai con un atto di sdegno, per significargli che la stima che poteva essersi fatta di me, della mia sanità mentale, non aveva piú, almeno per il momento, alcuna importanza. «Rispondi a me. Ho visto alla banca bilance e bilancine. Vi servono per pesare i pegni, è vero? Ma tu, dimmi un pò: tu, tu, sulla tua coscienza, li hai mai pesati, tu, col peso che possono avere per gli altri, codesti che chiami gli atti normali della banca?
A questa domanda Quantorzo si guardò di nuovo attorno, quasi che da altri, oltre che da me, si sentisse ancora, proditoriamente, tirare fuor di strada.
«Come, sulla mia coscienza?»
«Credi che non c'entri?» ribattei subito. «Eh, lo so! E forse credi che non c'entri neppure la mia, perché ve l'ho lasciata per tanti anni alla banca, con tutto l'altro patrimonio, ad amministrare secondo le norme di mio padre.
«Ma la banca...»si provò a obiettare Quantorzo.
Scattai di nuovo:
«La banca... la banca... Non sai veder altro che la banca, tu. Ma tocca a me poi, fuori, a sentirmi dare dell'usurajo!»
A questa uscita inattesa Quantorzo balzò in piedi a sua volta, come se avessi detto la piú fiera delle bestemmie o la piú madornale delle bestialità; e, fingendo di scapparsene: «Uh, Dio benedetto!» esclamò con le braccia levate; e, di nuovo: «Uh, Dio benedetto!» ritornando indietro, con la testa tra le mani e guardando mia moglie, come per dirle: "Ma sente, ma sente che bambinate? E io che supponevo che avesse da dirmi una cosa seria!". M'afferrò per le braccia, forse per scuotermi dallo sbalordimento che a mia volta m'aveva cagionato istintivamente quella sua mimica furiosa e mi gridò:
«Ma ti dai sul serio pensiero di questo? Eh via! eh via!»
E per prendersi la rivincita m'additò in prova a mia moglie che rideva, ah rideva, si buttava via dalle risa, certo per quello che avevo detto, ma fors’anche per l'effetto di quelle mie parole su Quantorzo, nonché per lo sbalordimento che n'era seguito in me e che senza dubbio ridestava in lei finalmente la piú lampante immagine della nota e cara sciocchezza del suo Gengè.»
Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all'improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento, nell'animo con cui un pò m'ero messo e un pò lasciato andare a quella discussione: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse; tanto finora m'era apparso chiaro ch’io alla presenza di quei due, io come io, non ci fossi, e ci fossero invece il "Gengè" dell'una e il "caro Vitangelo"dell'altro; nei quali non potevo sentirmi vivo.
Fuori d'ogni immagine in cui potessi rappresentarmi vivo a me stesso, come qualcuno anche per me, fuori d'ogni immagine di me quale mi figuravo potesse essere per gli altri; un "punto vivo" in me s'era sentito ferire cosí addentro, che perdetti il lume degli occhi.
«Finiscila di ridere!» gridai, ma con tal voce, a mia moglie, che questa, guardandomi (e chi sa che viso dovette vedermi) d'un tratto ammutolí, scontraffacendosi tutta.
«E tu stai bene attento a quello che ti dico,» soggiunsi subito, rivolto a Quantorzo. «Voglio che la banca sia chiusa questa sera stessa.»
«Chiusa? Che dici?»
«Chiusa! chiusa!» ribattei, facendomegli addosso. «Voglio che sia chiusa. Sono il padrone, sí o no?»
«No, caro! Che padrone!» insorse. «Non sei mica tu solo il padrone.»
«E chi altri? tu? il signor Firbo?»
«Ma tuo suocero, ma tanti altri!»
«Però la banca porta soltanto il mio nome.»
«No, di tuo padre che la fondò!»
«Ebbene, voglio che sia levato!»
«Ma che levato! Non è possibile!»
«Oh guarda un pò. Non sono padrone del mio nome? del nome di mio padre?»
«No, perché è negli atti di costituzione della banca, quel nome; è il nome della banca: creatura di tuo padre, tal quale come te! E ne porta il nome con lo stesso stessissimo tuo diritto!»
«Ah è cosí.»
«Cosí, cosí!»
«E il danaro? Quello che mio padre ci mise, di suo?»
«Ha investito nelle operazioni della banca.»
«E se io non voglio piú? Se voglio ritirarlo per investirlo altrimenti, a piacer mio, non sono padrone?»
«Ma tu cosí butti all'aria la banca!»
«E che vuoi che me n'importi? Non voglio più saperne, ti dico!»
«Ma importa agli altri, se permetti! Tu rovini gli interessi degli altri, i tuoi stessi, quelli di tua moglie, di tuo suocero!»
«Nient'affatto! Gli altri facciano quello che vogliono: séguitino a tenerci il loro: io ritiro il mio.»
«Vorresti mettere dunque in liquidazione la banca?»
«So un corno io di queste cose! So che voglio, "voglio" capisci? voglio ritirare i miei denari, e basta cosí!»
Vedo bene adesso che questi violenti diverbii, cosí a botta e risposta, sono veri e proprii pugilati tra due avverse volontà che cercano d'accopparsi a vicenda, colpendo, parando, ribattendo, sicura ciascuna che il colpo assestato debba atterrare l'altra; fin tanto che all'una e all'altra non venga dalla resistente durezza d'ogni ribattuta avversaria la prova sempre piú convincente che inutile è insistere poiché l'altra non cede. E la piú ridicola figura l'hanno fatta intanto i pugni veri levandosi istintivamente ad accompagnare irosi quelli parlati, o meglio, urlati, proprio fino all'altezza del grugno avversario ma senza toccarlo, e i denti che si serrano e i nasi che s’arricciano e le ciglia che s’aggrottano e tutta la persona che freme.
Con l'ultima scarica di quei tre "voglio", "voglio", "voglio" dovevo aver bene ammaccata la resistenza di Quantorzo. Gli vidi congiungere le mani in atto di preghiera:
«Ma si può sapere almeno perché? Cosí da un momento all'altro?»
Ebbi, vedendolo in quell'atto, come una vertigine. D'improvviso avvertii che spiegare lí per lí a lui e a mia moglie che pendevano da me, l’uno supplichevole e l'altra ansiosa e spaventata, i motivi di quella mia testarda risoluzione, di tanta gravità per tutti, non mi sarebbe stato possibile. Quei motivi, che pur sentivo in me aggrovigliati in quel momento e sottili e contorti dai lunghi spasimi delle mie tante meditazioni, non erano piú chiari del resto neanche a me stesso, strappato dalla concitazione dell'ira a quella terribile fissità di luce che folgorava tetra da quanto avevo cosí solitariamente scoperto: tenebra per tutti gli altri che vivevano ciechi e sicuri nella pienezza abituale dei loro sentimenti. Avvertii subito che, a svelarne appena appena uno solo, sarei parso irremissibilmente pazzo all'uno e all'altra: che, per esempio, non m’ero mai veduto fino a poco tempo addietro com'essi mi avevano sempre veduto, cioè uno che vivesse tranquillo e svagato sull'usura di quella banca, pur senza doverla riconoscere apertamente. L'avevo appena appena riconosciuto in loro presenza, ed ecco che all'uno e all'altra era sembrata un'ingenuità cosí inverosimile da suscitare nell'uno quella comica furiosa mimica e nell'altra quell'interminabile risata. E come dunque dir loro che su questa "ingenuità" appunto, ai loro occhi quasi incredibile, io fondavo tutto il peso di quella risoluzione? Ma se usurajo ero sempre stato, sempre, da prima ancora che nascessi? Non m'ero visto io stesso sulla strada maestra della pazzia incamminato a compiere un atto che agli occhi di tutti doveva apparire appunto contrario a me stesso e incoerente, ponendo fuori di me la mia volontà, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca? Non avevo io stesso riconosciuto che il signor usurajo Vitangelo Moscarda poteva sí impazzire, ma non si poteva in alcun modo distruggere?
Ebbene, ma questo, proprio questo, era il "punto vivo" ferito in me, che m'accecava e mi toglieva in quel momento la comprensione di tutto: che usurajo no, quell'usurajo che non ero mai stato per me, ora non volevo piú essere neanche per gli altri e non sarei piú stato, anche a costo della rovina di tutte le condizioni della mia vita. Ed era finalmente in me un sentimento, questo, ben cementato dalla volontà che mi dava (benché lo avvertissi fin d'allora con una certa apprensione e diffidenza) la stessa consistente solidità degli altri sorda e chiusa in sé come una pietra. Sicché bastò che mia moglie, approfittando del mio improvviso smarrimento, scattasse, imponendo al suo Gengè di finirla una buona volta con quella ridicola aria di comando che voleva darsi, e mi venisse, cosí dicendo, quasi con le mani in faccia, bastò questo perché io perdessi di nuovo il lume degli occhi e le afferrassi i polsi e scrollandola e respingendola indietro la ributtassi a sedere sulla poltrona:
«Finiscila tu, col tuo Gengè che non sono io, non sono io, non sono io! Basta con codesta marionetta! Voglio quello che voglio; e come voglio sarà fatto!»
Mi voltai a Quantorzo.
«Hai capito?»
E uscii, furioso, dal salotto.
 
Top
camillamencarelli
view post Posted on 15/5/2005, 14:08




LIBRO SESTO.

I. A tu per tu

Poco dopo, chiuso in camera come una bestia in gabbia, sbuffavo per quella violenza su mia moglie (la prima) senza potermela levare dagli occhi, nel bianco vagellare della lieve persona che pareva si sfaldasse tutta agli scrolli con cui la respingevo indietro, afferrata per i polsi, e la ributtavo a sedere sulla poltrona.
Ah come lieve, con tutti quei falbalà intorno all'abito di neve, all'urto brutale della mia violenza!
Rotta ormai, come una fragile bambola, là ributtata con tanta furia sulla poltrona, non l'avrei di certo raccapezzata piú. E tutta la mia vita, qual'era stata finora con lei, il giuoco di quella bambola: spezzato, finito, forse per sempre.
L'orrore della mia violenza mi fremeva vivo nelle mani ancora tremanti. Ma avvertivo che non era tanto della violenza quell'orrore, quanto del cieco insorgere in me d'un sentimento e d'una volontà che alla fine mi avevano dato corpo: un bestiale corpo che aveva incusso spavento e rese violente le mie mani.
Diventavo "uno".
Io.
Io che ora mi volevo cosí.
Io che ora mi sentivo cosí.
Finalmente.
Non piú usurajo (basta con quella banca): e non piú Gengè (basta con quella marionetta).
Ma il cuore seguitava a tumultuarmi in petto. Mi toglieva il respiro. Aprivo e chiudevo le mani, affondandomi le unghie nella carne. E appena, senza saperlo, mi grattavo con una mano il palmo dell'altra, raggirandomi ancora per la stanza, gangheggiavo come un cavallo che non soffra il morso. Farneticavo.
«Ma io, uno, chi? chi?»
Se non avevo piú occhi per vedermi da me come uno anche per me? Gli occhi, gli occhi di tutti gli altri seguitavo a vedermeli addosso, ma ugualmente senza poter sapere come ora m'avrebbero veduto in questa mia neonata volontà, se io stesso non sapevo ancora come sarei consistito per me.
Non piú Gengè.
Un altro.
Avevo proprio voluto questo.
Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?
Questa mia nuova volontà, questo mio nuovo sentimento potevano insorgere ciechi per la ferita in un punto vivo di me che non sapevo, ma subito cadevano, cadevano sotto la terribile fissità di quella luce che folgorava tetra da quanto avevo scoperto.
Volevo tuttavia intravedere, per raccapezzarmi, che cosa avrei potuto mettere su col po' di sangue di quella ferita, con quel po' di sentimento, lacerato, macerato, su lo sgangherato scheletro di quel po' di volontà: oh, un povero omicello sparuto, sempre spaventato dagli occhi degli altri; col sacchetto in pugno dei danari ricavati dalla liquidazione della banca. E come avrei potuto tenermeli piú ormai, quei danari?
Li avevo forse guadagnati io col mio lavoro? Averli ora ritirati dalla banca perché non fruttassero altra usura, bastava forse a mondarli di quella da cui erano venuti? E allora, che? buttarli via? E come avrei vissuto? Di che lavoro ero capace? E Dida?
Era anche lei - lo sentivo bene, ora che non la avevo piú in casa - era anche lei un punto. Io in me. Io l'amavo, non ostante lo strazio che mi veniva dalla perfetta coscienza di non appartenermi nel mio stesso corpo come oggetto del suo amore. Ma pur la dolcezza che a questo corpo veniva dal suo amore, la assaporavo io, cieco nella voluttà dell'abbraccio; anche se talvolta ero quasi tentato di strozzarla vedendole, tra le umide labbra convulse, come una smania di sorriso o di sospiro, tremare uno stupido nome: Gengè.


--------------------------------------------------------------------------------

II. Nel vuoto

L'immobilità sospesa di tutti gli oggetti del salotto, in cui rientrai come attratto dal silenzio che vi si era fatto: quella poltrona dov'ella dianzi stava seduta; quel canapè dove dianzi stava affondato Quantorzo; quel tavolinetto di lacca chiara filettato d'oro e le altre seggiole e le tende, mi diedero una cosí orribile impressione di vuoto che mi voltai a guardare i servi, Diego e Nina, i quali mi avevano annunziato che la padrona era andata via col signor Quantorzo lasciando l'ordine che tutte le sue robe fossero raccolte, chiuse nei bauli e mandate a casa del padre; e ora stavano a mirarmi con lo sbalordimento nelle bocche aperte e negli occhi vani.
La loro vista m'irritò. Gridai:
«E sta bene, eseguite l'ordine.»
Un ordine da eseguire era già, in quel vuoto, qualche cosa almeno per gli altri. E anche per me, se mi levava dai piedi quei due per il momento.
Come fui solo, stranamente quasi ilare d'improvviso, pensai: "Sono libero! Se n'è andata via!". Ma non mi pareva vero. Avevo l'impressione curiosissima che se ne fosse andata via per farmi la prova della giustezza della mia scoperta, la quale assumeva per me un'importanza cosí grande e assoluta, che a confronto ogni altra cosa non poteva averne se non una molto minore e relativa: anche se mi faceva perdere la moglie; anzi proprio per questo.
«Ecco se è vero!»
Nient'altro che la prova era terribile. Tutto il resto - ma sí, via - poteva parere anche ridicolo: quell'andarsene cosí su due piedi con Quantorzo, come quel mio insorgere per quella stupidaggine là, della gente che mi credeva usurajo.
Ma come, allora? ero già ridotto a questo? di non poter piú prendere nulla sul serio? E la mia ferita di poc'anzi, per cui avevo avuto quello scatto violento?
Già. Ma dove la ferita? In me?
A toccarmi, a strizzarmi le mani, sí, dicevo "io", ma a chi lo dicevo? e per chi? Ero solo. In tutto il mondo, solo. Per me stesso, solo. E nell'attimo del brivido, che ora mi faceva fremere alle radici i capelli, sentivo l'eternità e il gelo di questa infinita solitudine.
A chi dire "io"? Che valeva dire "io", se per gli altri aveva un senso e un valore che non potevano mai essere i miei; e per me, cosí fuori degli altri, l'assumerne uno diventa subito l'orrore di questo vuoto e di questa solitudine.


--------------------------------------------------------------------------------

III. Seguito a compromettermi

Venne a trovarmi, la mattina dopo, mio suocero.
Dovrei dir prima (ma non dirò) fin dov'ero arrivato con l'immaginazione, farneticando per gran parte della notte, a furia di trar conseguenze dalle condizioni in cui m'ero messo di fronte agli altri, non solo, ma anche rispetto a me stesso.
M'ero sottratto affannato a un breve sonno di piombo, con la sensazione dell'ostile gravezza di tutte le cose, anche dell'acqua raccolta nel cavo delle mani, per lavarmi, anche dell'asciugamani di cui dopo m'ero servito; quando, all'annunzio della visita, improvvisamente mi sentii tutto alleggerire da un pronto risveglio di quell'estro gaio che per fortuna come un benefico vento m'arieggia ancora a tratti lo spirito.
Feci volar l'asciugamani e dissi a Nina:
«Bene bene. Fallo accomodare nel salotto, e digli che vengo subito.»
Mi guardai allo specchio dell'armadio con irresistibile confidenza fino a strizzare un occhio per significare a quel Moscarda là che noi due intanto c'intendevamo a maraviglia. E anche lui, per dire la verità, subito mi strizzò l'occhio, a confermare l'intesa.
(Voi mi direte, lo so, che questo dipendeva perché quel Moscarda là nello specchio ero io; e ancora una volta dimostrerete di non aver capito niente. Non ero io, ve lo posso assicurare. Tant'è vero che, un istante dopo, prima d'uscire, appena voltai un pò la testa per riguardarlo in quello specchio era già un altro, anche per me, con un sorriso diabolico negli occhi aguzzi e lucidissimi. Voi ve ne sareste spaventati; io no; perché già lo sapevo; e lo salutai con la mano. Mi salutò con la mano anche lui, per dire la verità).
Tutto questo, per cominciare. La commedia seguitò poi nel salotto con mio suocero.
In quattro?
No.
Vedrete in quanti svariati Moscarda, dacché c'ero, mi spassai a produrmi quella mattina.


--------------------------------------------------------------------------------

IV. Medico? Avvocato? Professore? Deputato?

Senza dubbio era mio suocero la cagione dell'insperato risveglio del mio estro, per quella (sí, Dio mio) forse irrispettosa realtà che io finora gli avevo dato, di stupidissimo uomo sempre soddisfatto di sé.
Molto curato, non pur nei panni, anche nell'acconciatura dei capelli e dei baffi fino all'ultimo pelo; biondo biondo, e d'aspetto, non dirò volgare ma comune a ogni modo; tutte quelle cure avrebbe potuto risparmiarsele, perché gli abiti addosso a lui, di fattura inappuntabile, restavano come non suoi, del sarto che glieli aveva cuciti; e anche quella sua testa cosí ben ravviata e quelle sue mani cosí tornite e levigate, anziché attaccate vive e di carne al suo solino e alle sue maniche, potevano figurare senza alcuno scàpito esposte mozze e di cera nelle vetrine d'un parrucchiere e d'un guantaio. Sentirlo parlare, vedergli socchiudere gli occhi cilestri smaltati nella beatitudine d'un perenne sorriso per tutto ciò che gli usciva dalle labbra coralline; vedergli poi riaprire quegli occhi e la pàlpebra del destro restargli un pò tirata e appiccicata, quasi non riuscisse a distaccarsi cosí presto dal prelibato sapore di un'intima soddisfazione che nessuno avrebbe mai supposto in lui; non poteva non fare una stranissima impressione, tanto pareva finto, ripeto: fantoccio da sarto e testa da vetrina di barbiere.
Ora, mentre me l'aspettavo cosí, la sorpresa di trovarmelo davanti tutto scomposto e agitato serví soltanto a stuzzicare in me d'improvviso il desiderio di provare quel rischio squisito con cui uno muove inerme e sorridente contro un nemico che lo minacci armato, dopo avergli intimato di non muoversi d'un passo.
L'estro riacceso in me m'imponeva difatti sulle labbra un sorriso di sfida e sulla fronte un'aria di smemorataggine per il giuoco che voleva seguitare, pericolosissimo, mentre erano in ballo cosí gravi interessi e per quell'uomo là e per tanti altri: le sorti della banca; le sorti della mia famiglia: avere altre prove di quella terribile cosa che già sapevo: cioè, che sarei inevitabilmente sembrato pazzo, ancora e piú di prima, coi discorsi che mi disponevo a fare, giú a rotta di collo per la china di quell'incredibile e inverosimile ingenuità che aveva fatto strabiliare Quantorzo e buttar via dalle risa mia moglie.
Difatti, anche per me ormai, se consideravo bene a fondo le cose non poteva esser valida scusa la coscienza a cui volevo appigliarmi. Potevo sentirmi rimordere sul serio di quell'usura che non m'ero mai inteso di esercitare? Avevo sí firmato per formalità gli atti di quella banca; ero vissuto fino a quel momento dei guadagni di essa senza mai pensarci; ma ora che finalmente me ne rendevo conto, avrei ritirato i danari dalla banca, e presto, per mettermi del tutto a posto, me ne sarei liberato come che fosse, istituendo un'opera di carità o qualcosa di simile.
«Come! E ti par niente tutto questo? Ma Dio mio, ma dunque è vero?»
«Vero, che cosa?»
«Che ti sei impazzito! E di mia figlia che vorresti farne? Come vorresti vivere? di che?»
«Ecco, questo sí: questo mi pare importante. Da studiare.»
«Rovinare per sempre la tua posizione? Ciascuno ha sempre fatto i suoi affari da che mondo è mondo.»
«Benissimo. E dunque, d'ora in poi, anch’io i miei.»
«Ma come, i tuoi, se butti via i danari guadagnati da tuo padre in tanti anni di lavoro?»
«Ho sei anni d'Università.»
«Ah! Vorresti tornare all'Università?»
«Potrei.»
Accennò d'alzarsi. Lo trattenni, domandandogli:
«Scusi: prima di venire alla liquidazione della banca, ci sarà tempo, non è vero?»
S’alzò furente, con le braccia per aria.
«Ma che liquidazione! che liquidazione! che liquidazione!»
«Se non vuol lasciarmi dire...»
Si voltò di scatto.
«Ma che vuoi dire. Tu farnetichi!»
«Sono calmissimo,» gli feci notare. «Le volevo dire che ho tante materie di studio già a buon punto e lasciate lí.»
Mi guardò stordito.
«Materie di studio? Che significa?»
«Che potrei, anche presto, prendere una laurea di medico, per esempio, o di dottore in lettere e filosofia.»
«Tu?»
«Non crede? Sí. M'ero messo anche per medico. Tre anni. E mi piaceva. Domandi, domandi a Dida come vedrebbe meglio il suo Gengè. Se medico o professore. Ho la parola facile: potrei anche, volendo, far l'avvocato.»
Si scrollò violentemente.
«Ma se non hai voluto fare mai niente!»
«Già. Ma non per leggerezza, veda. Anzi, al contrario! Mi ci affondavo troppo. E non si riesce a nulla, creda, affondandosi troppo in qualsiasi cosa. Si vengono a fare certe scoperte! Leggermente però, le assicuro che il medico, l'avvocato o, se Dida preferisce, il professore, potrei farlo benissimo. Basta che mi ci metta.»
Paonazzo dalla violenza che faceva su se stesso per starmi a sentire, a questo punto scappò via. O schiattava. Gli corsi dietro, gridando:
«Ma no, ma senta, ma dando via i danari di mio padre ma sa che popolarità! Mi potrebbero anche eleggere deputato: ci pensi! Se a Dida piacesse, e anche a lei: il genero deputato... Non mi ci vede? non mi ci vede?»
Se n'era già scappato via, urlando a ogni mia parola:
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!»


--------------------------------------------------------------------------------

V. Io dico, poi, perché?

Il tono era di scherzo, non nego, per via di quel maledetto estro. E poteva anche parere ch’io parlassi con molta fatuità: lo riconosco. Ma le proposte di un Gengè medico o avvocato o professore e perfino deputato, se potevano far ridere me, avrebbero potuto imporre a lui, io dico, almeno quella considerazione e quel rispetto che di solito si hanno in provincia per queste nobili professioni cosí comunemente esercitate anche da tanti mediocri coi quali, poi poi, non mi sarebbe stato difficile competere.
La ragione era un'altra, lo so bene. Non mi ci vedeva neanche lui, mio suocero. Per motivi ben altri dai miei.
Non poteva ammettere, lui, ch’io gli levassi il genero (quel suo Gengè ch’egli vedeva in me, chi sa come) dalle condizioni in cui se n'era stato finora, cioè da quella comoda consistenza di marionetta che lui da un canto e la figlia dall'altro, e dal canto loro tutti i socii della banca gli avevano dato.
Dovevo lasciarlo cosí com'era, quel buon figliuolo feroce di Gengè, a vivere senza pensarci dell'usura di quella banca non amministrata da lui.
E io vi giuro che l'avrei lasciato lí, per non turbare quella mia povera bambola, il cui amore mi era pur cosí caro, e per non cagionare un cosí grave scompiglio a tanta brava gente che mi voleva bene, se, lasciandolo lí per gli altri, io poi per mio conto me ne fossi potuto andare altrove con un altro corpo e un altro nome.


--------------------------------------------------------------------------------

VI. Vincendo il riso

Sapevo altresí che a mettermi in nuove condizioni di vita, a rappresentarmi agli altri domani da medico, poniamo, o da avvocato o da professore, non mi sarei ugualmente ritrovato né uno per tutti né io stesso mai nella veste e negli atti di nessuna di quelle professioni.
Troppo ero già compreso dall'orrore di chiudermi nella prigione d'una forma qualunque.
Pur non di meno quelle stesse proposte, fatte per ridere a mio suocero, io le avevo fatte sul serio a me stesso durante la notte, vincendo il riso che mi provocavano le immagini di me avvocato o medico o professore. Avevo insomma pensato che una di quelle professioni, o un'altra qual si fosse, avrei dovuto prenderla e accettarla come una necessità se Dida, ritornando a me com'io volevo, me n'avesse fatto l'obbligo per provvedere del mio meglio alla sua nuova vita con un nuovo Gengè.
Ma dalla furia con cui mio suocero se n'era scappato potevo argomentare che, anche per Dida, nessun nuovo Gengè poteva nascere dal vecchio. Tanto questo vecchio le dava a vedere d'essersi impazzito senza rimedio, se cosí per niente voleva togliersi da un momento all'altro dalle condizioni di vita in cui era vissuto finora felicemente.
E davvero pazzo volevo esser io a pretendere che una bambola come quella impazzisse insieme con me, cosí per niente.
 
Top
camillamencarelli
view post Posted on 15/5/2005, 14:14




LIBRO SETTIMO

I. Complicazione

Fui invitato la mattina dopo con un bigliettino recato a mano ad andar subito in casa di Anna Rosa, l'amichetta di mia moglie che ho nominato una o due volte in principio, cosí di passata.
M'aspettavo che qualcuno cercasse di mettersi di mezzo per tentare la riconciliazione tra me e Dida; ma questo qualcuno nelle mie supposizioni doveva venire da parte di mio suocero e degli altri socii della banca, non direttamente da parte di mia moglie; già che l'unico ostacolo da rimuovere era la mia intenzione di liquidare la banca. Tra me e mia moglie non era avvenuto quasi nulla. Bastava ch’io dicessi ad Anna Rosa d'esser pentito sinceramente dello sgarbo fatto a Dida scrollandola e buttandola a sedere sulla poltrona del salotto, e la riconciliazione sarebbe avvenuta senz'altro.
Che Anna Rosa si fosse preso l'incarico di farmi recedere da quella intenzione, ponendolo come patto per il ritorno di mia moglie in casa, non mi parve in alcun modo ammissibile.
Sapevo da Dida che la sua amichetta aveva rifiutato parecchi matrimonii cosí detti vantaggiosi per disprezzo del danaro, attirandosi la riprovazione della gente assennata e anche di Dida che certo, sposando me (voglio dire il figlio d'un usurajo), aveva dovuto lasciare intendere alle sue amiche che lo faceva perché alla fin fine era un matrimonio "vantaggioso".
Per questo "vantaggio" da salvare Anna Rosa non poteva esser dunque l'avvocato piú adatto.
Era da ammettere piuttosto il contrario: che Dida avesse ricorso a lei per aiuto, cioè per farmi sapere che il padre, d'accordo con gli altri soci, la tratteneva in casa e le impediva di ritornare a me se io non recedevo dall'intenzione di liquidare la banca. Ma conoscendo bene mia moglie, non mi parve ammissiblle neppur questo.
Andai pertanto a quell'invito con una grande curiosità. Non riuscivo a indovinarne la ragione.


--------------------------------------------------------------------------------

II. Primo avvertimento

Conoscevo poco Anna Rosa. L'avevo veduta parecchie volte in casa mia, ma essendomi sempre tenuto lontano, piú per istinto che di proposito, dalle amiche di mia moglie, avevo scambiato con lei pochissime parole. Certi mezzi sorrisi, per caso sorpresi sulle sue labbra mentre mi guardava di sfuggita, mi erano sembrati cosí chiaramente rivolti a quella sciocca immagine di me che il Gengè di mia moglie Dida le aveva dovuto far nascere nella mente, che nessun desiderio m'era mai sorto d'intrattenermi a parlare con lei.
Non ero mai stato a casa sua.
Orfana di padre e di madre, abitava con una vecchia zia in quella casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badía Grande: mura d'antico castello, dalle finestre con le grate inginocchiate da cui sul tramonto s’affacciano ancora le poche vecchie suore che vi sono rimaste. Una di quelle suore, la meno vecchia, era zia anch’essa di Anna Rosa, sorella del padre; ed era, dicono, mezza matta. Ma ci vuol poco a fare ammattire una donna, chiudendola in un monastero. Da mia moglie, che fu per tre anni educanda nel convento di San Vincenzo, so che tutte le suore, cosí le vecchie come le giovani, erano, chi per un verso chi per un altro, mezze matte.
Non trovai in casa Anna Rosa. La vecchia serva che m'aveva recato il bigliettino, parlandomi misteriosamente dalla spia della porta senza aprirla, mi disse che la padroncina era su alla Badía, dalla zia monaca, e che andassi pure a trovarla là, chiedendo alla suora portinaja d'essere introdotto nel parlatorietto di Suor Celestina.
Tutto questo mistero mi stupí. E sul principio, anziché accrescere la mia curiosità, mi trattenne d'andare. Per quanto mi fosse possibile in quello stupore, avvertii il bisogno di riflettere prima sulla stranezza di quel convegno lassu alla Badía in un parlatorietto di suora.
Ogni nesso tra la mia futile disavventura coniugale e quell'invito mi parve rotto, e subito rimasi apprensionito come per un'imprevista complicazione che avrebbe recato chi sa quali conseguenze alla mia vita.
Come tutti sanno a Richieri, poco mancò non mi recasse la morte. Ma qui mi piace ripetere cio che già dissi davanti ai giudici, perché per sempre sia cancellato dall'animo di tutti il sospetto che allora la mia deposizione fosse fatta per salvare e mandare assolta d'ogni colpa Anna Rosa. Nessuna colpa da parte sua. Fui io, o piuttosto ciò che finora è stato materia di queste mie tormentose considerazioni, se l'improvvisa e inopinata avventura a cui quasi senza volerlo mi lasciai andare per un ultimo disperatissimo esperimento, rischio d'avere una tal fine.


--------------------------------------------------------------------------------

III. La rivoltella tra i fiori

Per una delle straducole a sdrucciolo della vecchia Richieri durante il giorno appestate dal lezzo della spazzatura marcita, andai su alla Badía.
Quando si sia fatta l'abitudine di vivere in un certo modo, andare in qualche luogo insolito e nel silenzio avvertire come un sospetto che ci sia qualcosa di misterioso a noi, da cui, pur lí presente, il nostro spirito è condannato a restar lontano, è un'angoscia indefinita, perché si pensa che, se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo.
Quella Badía, già castello feudale dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la vasta corte con la cisterna in mezzo, e quello scalone consunto, cupo e rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e quel largo e lungo corridojo con tanti usci da una parte e dall'altra e i mattoni rosi del pavimento avvallato che lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio del cielo, tante vicende di casi e aspetti di vita aveva accolto in sé e veduto passare, che ora, nella lenta agonia di quelle poche suore che vi vagavano dentro sperdute, pareva non sapesse piú nulla di sé. Tutto là dentro pareva ormai smemorato, nella lunghissima attesa della morte di quelle ultime suore, a una a una; perduta da gran tempo la ragione per cui, castello baronale, era stato dapprima costruito, divenuto poi per tanti secoli badía.
La suora portinaja aprí uno di quegli usci nel corridojo e m'introdusse nel parlatorietto. Una campanella malinconica già era stata sonata da basso, forte per chiamare Suor Celestina.
Il parlatorietto era bujo, tanto che in prima non potei discernervi altro che la grata in fondo, appena intravista alla poca luce entrata dall'uscio nell'aprirlo. Rimasi in piedi in attesa; e chi sa quanto ci sarei rimasto se alla fine una fievole voce dalla grata non m'avesse invitato ad accomodarmi che presto Anna Rosa sarebbe venuta su dall'orto.
Non mi proverò a esprimere l'impressione che mi fece quella voce inattesa nel bujo, di là dalla grata. Mi folgorò in quel bujo il sole che doveva esserci in quell'orto della badia. che non sapevo dove fosse, ma che certo doveva essere verdissimo; e d'improvviso mi silluminò in mezzo a quel verde la figura d'Anna Rosa come non l'avevo mai veduta tutta un fremito di grazia e di malizia. Fu un baleno. Ritornò il bujo. O piuttosto non il bujo, perché ora potevo discernere la grata, e davanti a quella grata un tavolino e due seggiole. In quella grata, il silenzio. Vi cercai la voce che mi aveva parlato, fievole ma fresca, quasi giovanile. Non c'era piú nessuno. Eppure doveva essere stata la voce d'una vecchia.
Anna Rosa, quella voce, quel parlatorietto, il sole in quel bujo, il verde dell'orto: mi prese come una vertigine.
Poco dopo Anna Rosa aprí di furia l'uscio e mi chiamò fuori del parlatorietto nel corridojo. era tutta accesa in volto, coi capelli in disordine, gli occhi sfavillanti, la camicetta bianca di lana a maglia sbottonata sul petto come per caldo, e aveva tra le braccia tanti fiori e un tralcio d'edera che le passava sopra una spalla e le tentennava lungo, dietro. Corse, invitandomi a seguirla in fondo al corridojo, salí sullo scalino sotto al finestrone, ma nel salire, forse per riparare con una mano una parte dei fiori che stava per sfuggirle si lasciò invece cadere dall'altra la borsetta, e subito il fragore d'una detonazione seguito da un altissimo grido fece rintronare tutto il corridojo.
Feci appena in tempo a sorreggere Anna Rosa che mi si batteva addosso. Nello sbalordimento, prima che riuscissi a rendermi conto di ciò che era avvenuto, mi vidi attorno certe vecchie suore pigolanti spaventate, le quali, pur essendo accorse per quello sparo nel corridojo e pur vedendomi tra le braccia Anna Rosa ferita, erano tuttavia in preda a un'altra costernazione ch’io in prima non potei intendere tanto mi pareva impossibile che non si dovesse aver quella per cui di gran voce io chiedevo loro un letto, dove adagiare la ferita; mi rispondevano "Monsignore"; che stava per arrivare Monsignore. A sua volta, Anna Rosa mi gridava tra le braccia: "La rivoltella! la rivoltella!", cioè che rivoleva da me la rivoltella ch’era dentro la borsetta, perché era un ricordo del padre.
Che in quella borsetta caduta dovesse esserci una rivoltella la quale, esplodendo, l'aveva ferita a un piede, m'era apparso subito evidente; ma non cosí la ragione per cui la portava con sé, e proprio quella mattina che mi aveva dato convegno alla Badía. Mi parve stranissimo; ma non mi passò neppur lontanamente per il capo in quel momento che l'avesse portata per me.
Piú che mai stordito, vedendo che nessuno mi dava aiuto per soccorrere la ferita, me la tolsi di peso sulle braccia e la portai fuori della Badía, giú per la straducola, a casa.
Mi toccò, poco dopo, risalire alla Badía per riprendere dal corridojo sotto al finestrone quella rivoltella, che doveva poi servire per me.


--------------------------------------------------------------------------------

IV. La spiegazione

La notizia di quello strano accidente alla Badía Grande e di me che ne uscivo a precipizio reggendo sulle braccia Anna Rosa ferita, si propagò per Richieri in un baleno, dando subito pretesto a malignazioni che per la loro assurdità mi parvero in prima perfino ridicole. Tanto ero lontano dal supporre che potessero non solo parer verosimili, ma addirittura essere tenute per vere; e non già da coloro a cui tornava conto metterle in giro e fomentarle, ma finanche da colei che reggevo ferita sulle braccia.
Proprio cosí.
Perché Gengè, signori miei, quello stupidissimo Gengè di mia moglie Dida, covava, senza ch’io ne sapessi nulla, una bruciante simpatia per Anna Rosa. Se l'era messo in testa Dida; Dida che se n'era accorta. Non ne aveva detto mai nulla a Gengè; ma lo aveva confidato, sorridendone, alla sua amichetta, per farle piacere e fors’anche per spiegarle che c'era il suo motivo, se Gengè la schivava, quand'ella veniva in visita; la paura d'innamorarsene.
Non mi riconosco nessun diritto di smentire codesta simpatia di Gengè per Anna Rosa. Potrei al piú sostenere che non era vera per me; ma non sarebbe giusto neppure questo, perché effettivamente non m'ero mai curato di sapere se sentissi antipatia o simpatia per quell'amichetta di mia moglie.
Mi pare d'aver dimostrato a sufficienza che la realtà di Gengè non apparteneva a me, ma a mia moglie Dida che gliel'aveva data.
Se Dida dunque attribuiva quella segreta simpatia al suo Gengè, importa poco ch’essa non fosse vera per me: era tanto vera per Dida, che vi trovava la ragione per cui mi tenevo lontano da Anna Rosa; e tanto vera anche per Anna, che le occhiate che qualche volta io le avevo rivolte di sfuggita erano state anzi interpretate da lei come qualche cosa di piú, per cui io non ero quel carino sciocchino Gengè che mia moglie Dida si figurava, ma un infelicissimo Signor Gengè che doveva soffrire chi sa che strazii in corpo a essere stimato e amato cosí dalla propria moglie.
Perché, se ci pensate bene, questo è il meno che possa seguire dalle tante realtà insospettate che gli altri ci dànno. Superficialmente, noi sogliamo chiamarle false supposizioni, erronei giudizii, gratuite attribuzioni. Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che piú vera della vostra stessa realtà è quella che vi dànno loro. Nessuno piú di me ha potuto farne esperienza.
Io mi trovai dunque, senza che ne sapessi nulla, innamoratissimo di Anna Rosa, e per questa ragione impigliato nell’accidente di quello sparo nella Badía come non mi sarei mai e poi mai immaginato.
Assistendo Anna Rosa, dopo averla trasportata a casa sulle braccia e adagiata sul suo letto, corso per un medico, per un'infermiera, e prestato le prime cure del caso, sentii subito anch’io piú che possibile, vero, ciò che ella aveva immaginato di me in seguito alle confidenze di Dida; la mia simpatia per lei. E potei avere dalla sua bocca, stando a sedere a piè del letto nell'intimità color di rosa della sua cameretta offesa dal cattivo odore dei medicinali, tutte le spiegazioni. E, prima, quella della rivoltella nella borsetta, causa dell'accidente.
Come rise di cuore immaginando che qualcuno potesse supporre ch’ella l'avesse portata per me nel darmi convegno alla Badía!
La portava sempre con sé, nella borsetta, quella rivoltella, dacché l'aveva trovata nel taschino d'un panciotto del padre, morto improvvisamente da sei anni. Piccolissima, con l'impugnatura di madreperla e tutta lucida e viva, le era parsa un gingillo, tanto piú carino in quanto nel suo grazioso congegno racchiudeva il potere di dare la morte. E piú d'una volta, mi confidò, in qualche non raro momento che il mondo tutt'intorno, per certi strani sgomenti dell'anima, le si faceva come attonito e vano, aveva avuto la tentazione di farne la prova, giocando con essa, provando nelle dita sul liscio lucido dell'acciaio e della madreperla la delizia del tatto. Ora, che essa, invece che alla tempia o nel cuore per volontà di lei, avesse potuto per caso morderla a un piede, e anche col rischio - come si temeva - di farla restar zoppa, le cagionava uno stranissimo dispiacere. Credeva d'essersela appropriata tanto, che non dovesse avere piú per sé quel potere. La vedeva cattiva, adesso. La traeva dal cassetto del comodino accanto al letto, la mirava e le diceva:
«Cattiva!»
Ma quel convegno su alla Badía, nel parlatorietto della zia monaca, perché? E quelle sette suore che, invece di darsi pensiero di lei ferita, mi parlavano, quasi oppresse, della visita di non so qual Monsignore?
Ebbi la spiegazione anche di questo mistero.
Ella sapeva che quella mattina monsignor Partanna, vescovo di Richieri, sarebbe andato a far visita alle vecchie suore della Badía Grande, come soleva ogni mese. Per quelle vecchie suore quella visita era come un'anticipazione della beatitudine celeste: rischiare d'averla guastata da quell'accidente era stato perciò per loro la costernazione piú grave. Mi aveva fatto venire su alla Badía perché voleva ch’io parlassi subito, quella mattina stessa, col vescovo.
«Io, col vescovo? E perché?»
Per ovviare a tempo ciò che si stava tramando contro di me.
Mi volevano proprio interdire, denunziandomi come alterato di mente. Dida le aveva annunziato che già erano state raccolte e ordinate tutte le prove, da Firbo, da Quantorzo, da suo padre e da lei stessa, per dimostrare la mia lampante alterazione mentale. Tanti erano pronti a farne testimonianza finanche quel Turolla che avevo difeso contro Firbo e tutti i commessi della banca; finanche Marco di Dio a cui avevo fatto donazione d'una casa.
«Ma la perderà,» non potei tenermi dal fare osservare ad Anna Rosa. «Se sono dichiarato alterato di mente, l'atto della donazione diventerà nullo!»
Anna Rosa scoppiò a ridermi in faccia per la mia ingenuità. A Marco di Dio dovevano aver promesso che, se testimoniava come volevano loro, non avrebbe perduto la casa. E del resto, poteva, anche secondo coscienza, testimoniarlo.
Guardai sospeso Anna Rosa che rideva. Ella se n'accorse e si mise a gridare:
«Ma sí, pazzie! tutte pazzie! tutte pazzie!»
Se non che, lei ne godeva, le approvava, e piú che piú se con esse volevo arrivare veramente a quella piú grande di tutte: cioè di buttare all'aria la banca e d'allontanare da me una donna che m'era stata sempre nemica.
«Dida?»
«Non crede?»
«Nemica, sí, adesso.»
«No, sempre! sempre!»
E m'informò che da tempo cercava di fare intendere a mia moglie ch’io non ero quello sciocco che lei simmaginava, in lunghe discussioni che le erano costate una fatica infinita per frenare il dispetto che le cagionava l'ostinazione di quella donna a voler vedere in tanti miei atti o parole una sciocchezza che non c'era o un male che soltanto un animo deliberatamente nemico vi poteva vedere.
Strabiliai. D'un tratto, per quelle confidenze d'Anna Rosa vidi una Dida cosí diversa dalla mia e pur cosí ugualmente vera, che provai - in quel punto, piú che mai - tutto l'orrore della mia scoperta. Una Dida che parlava di me come assolutamente non mi sarei mai immaginato ch’ella ne potesse parlare, nemica anche della mia carne. Tutti i ricordi della nostra intimità comune, separati e traditi cosí indegnamente che, per riconoscerli, dovevo superarne con dispetto il ridicolo che prima non avevo avvertito, riparare una vergogna che prima, in segreto, non m'era parso di dover sentire. Come se a tradimento, dopo avermi indotto confidente a denudarmi, spalancata la porta m'avesse esposto alla derisione di chiunque avesse voluto entrare a vedermi cosí nudo e senza riparo. E apprezzamenti sulla mia famiglia e giudizii sulle mie piú naturali aitudini, che non mi sarei mai aspettati da lei. Insomma un'altra Dida; una Dida veramente nemica.
Eppure, sono certo certissimo che col suo Gengè ella non fingeva: era col suo Gengè quale poteva essere per lui, perfettamente intera e sincera. Fuori poi della vita che poteva avere con lui, diventava un'altra: quell'altra che ora le conveniva o le piaceva o veramente sentiva di essere per Anna Rosa.
Ma di che mi maravigliavo? Non potevo io lasciarle intero il suo Gengè, cosí com'ella se l'era foggiato, ed essere poi un altro per conto mio?
Cosí era di me, come di tutti.
Non dovevo rivelare il segreto della mia scoperta ad Anna Rosa. Fui tentato da lei stessa, per ciò che ella mi fece sapere, cosí improvvisamente, di mia moglie. E non mi sarei mai immaginato che la rivelazione le avrebbe prodotto nello spirito il turbamento che le produsse, fino a farle commettere la follia che commise.
Ma dirò prima della mia visita a Monsignore, a cui ella stessa mi spinse con gran premura, come a cosa che non comportasse piú altro indugio.


--------------------------------------------------------------------------------

V. Il Dio di dentro e il Dio di fuori

Al tempo che conducevo a spasso Bibí, la cagnolina di mia moglie, le chiese di Richieri erano la mia disperazione.
Bibí a tutti i costi ci voleva entrare.
Alle mie sgridate, sacculava, alzava e scoteva una delle due zampine davanti, sternutiva, poi con un'orecchia su e l'altra giu stava a guardarmi, proprio con l'aria di credere che non era possibile, non era possibile che a una cagnolina bellina come lei non fosse lecito entrare in una chiesa. Se non ci stava nessuno.
«Nessuno? Ma come nessuno, Bibí?» le dicevo io. «Ci sta il piú rispettabile dei sentimenti umani. Tu non puoi intendere queste cose, perché sei per tua fortuna una cagnolina e non un uomo. Gli uomini, vedi? hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa.»
A me era sempre bastato finora averlo dentro, a mio modo, il sentimento di Dio. Per rispetto a quello che ne avevano gli altri, avevo sempre impedito a Bibí di entrare in una chiesa; ma non c'entravo nemmeno io. Mi tenevo il mio sentimento e cercavo di seguirlo stando in piedi, anziché andarmi a inginocchiare nella casa che gli altri gli avevano costruito.
Quel punto vivo che s’era sentito ferire in me quando mia moglie aveva riso nel sentirmi dire che non volevo piú mi si tenesse in conto d'usurajo a Richieri, era Dio senza alcun dubbio: Dio che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva piú tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d'usurajo.
Ma se fossi andato a dire cosí a Quantorzo o a Firbo e agli altri soci della banca, avrei dato loro certamente un'altra prova della mia pazzia.
Bisognava invece che il Dio di dentro, questo Dio che in me sarebbe a tutti ormai apparso pazzo, andasse quanto piú contritamente gli fosse possibile a far visita e a chiedere aiuto e protezione al saggissimo Dio di fuori, a quello che aveva la casa e i suoi fedelissimi e zelantissimi servitori e tutti i suoi poteri sapientemente e magnificamente costituiti nel mondo per farsi amare e temere.
A questo Dio non c'era pericolo che Firbo o Quantorzo s’attentassero a dare del pazzo.


--------------------------------------------------------------------------------

VI. Un vescovo non comodo

Andai dunque a trovare al Vescovado monsignor Partanna.
Dicevano a Richieri che era stato eletto vescovo per istanze e mali ufficii di potenti prelati a Roma. Il fatto è che, pur essendo da alcuni anni a capo della diocesi, non era ancora riuscito a cattivarsi la simpatia, a conciliarsi la confidenza di nessuno.
A Richieri si era avvezzi al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza del suo predecessore, il defunto Eccellentissimo Monsignor Vivaldi; e tutti perciò si erano sentiti stringere il cuote allorché avevano veduto per la prima volta scendere a piedi dal Palazzo Vescovile lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo, tra i due segretarii che lo accompagnavano.
Un vescovo a piedi?
Dacché il Vescovado sedeva come una tetra fortezza in cima alla città, tutti i vescovi erano sempre scesi in una bella carrozza con l'attacco a due, gale rosse e pennacchi.
Ma all'atto stesso della sua insediatura monsignor Partanna aveva detto che vescovado è nome d'opera e non d'onore. E aveva licenziato servi e cuoco, cocchiere e famigli, smesso la carrozza e inaugurato la piú stretta economia, con tutto che la diocesi di Richieri fosse tra le piú ricche d'Italia. Per le visite pastorali nella diocesi, molto trascurate dal suo predecessore e da lui invece osservate con la massima vigilanza ai tempi voluti dai Canoni, non ostanti le gravi difficoltà delle vie e la mancanza di comunicazioni, si serviva di carrozze d'affitto e anche d'asini o di muli.
Sapevo poi da Anna Rosa che tutte le suore dei cinque monasteri della città, tranne quelle ormai decrepite della Badía Grande, lo odiavano per le crudeli disposizioni emanate contro di loro appena insediatosi vescovo, cioè che non dovessero piu né preparare né vendere dolci o rosolii, quei buoni dolci di miele e di pasta reale infiocchettati e avvolti in fili d'argento, quei buoni rosolii che sapevano d'anice e di cannella! e non piú ricamare, neanche arredi e paramenti sacri, ma far soltanto la calza; e infine che non dovessero piú avere un confessore particolare, ma servirsi tutte, senza distinzione, del Padre della comunità. Disposizioni anche piú gravi aveva poi dato per i canonici e benehciali di tutte le chiese, e insomma per la piú rigida osservanza d'ogni dovere da parte di tutti gli ecclesiastici.
Un vescovo cosí non è comodo per tutti coloro che han voluto mettere fuori di sé il sentimento di Dio costruendogli una casa fuori, tanto piú bella quanto maggiore il bisogno di farsi perdonare. Ma era per me il meglio che mi potessi augurare. Il suo predecessore, l'Eccellentissimo Monsignor Vivaldi, benvisto a tutti, con tutti alla mano, avrebbe senza dubbio cercato il modo e la maniera d'accomodare ogni cosa, salvando banca e coscienza, per accontentare me, ma anche Firbo e Quantorzo e tutti gli altri.
Ora io sentivo che non potevo piú accomodarmi né con me né con nessuno.


--------------------------------------------------------------------------------

VII. Un colloquio con Monsignore

Monsignor Partanna mi ricevette nella vasta sala dell'antica cancelleria nel Palazzo Vescovile.
Sento ancora nelle narici l'odore di quella sala dal tetro soffitto affrescato, ma cosí coperto di polvere che quasi non vi si scorgeva piu nulla. Le alte pareti dall'intonaco ingiallito erano ingombre di vecchi ritratti di prelati, anch’essi bruttati dalla polvere e qualcuno anche dalla muffa, appesi qua e là senz'ordine, sopra armadii e scansíe stinte e tarlate.
In fondo alla sala s’aprivano due finestroni, i cui vetri, d'una tristezza infinita sulla vanità del cielo velato, erano scossi continuamente dal vento che s’era levato d'improvviso, fortissimo: il terribile vento di Richieri che mette l'angoscia in tutte le case.
Pareva a momenti che quei vetri dovessero cedere alla furia urlante del libeccio. Tutto il colloquio tra me e Monsignore ebbe l'accompagnamento sinistro di sibili acuti e veementi, di cupi, lunghi mugolíi che, distraendomi spesso dalle parole di Monsignore, mi fecero sentire con un indefinibile sbigottimento, come non l'avevo sentito mai, il rammarico della vanità del tempo e della vita.
Ricordo che da uno di quei finestroni si scorgeva il terrazzino d'una vecchia casa dirimpetto. Su quel terrazzino apparve a un tratto un uomo, che doveva essere scappato dal letto con la folle idea di provare la voluttà del volo.
Esposto lí al vento furioso, si faceva svolazzare attorno al corpo magro, d'una magrezza che incuteva ribrezzo, la coperta del letto: una coperta di lana rossa, appesa e sorretta con le due braccia in croce, sulle spalle. E rideva, rideva con un lustro di lagrime negli occhi spiritati, mentre gli volavano di qua e di là, lingueggiando come fiamme, le lunghe ciocche dei capelli rossicci.
Quell'apparizione mi stupí tanto, che a un certo punto non potei piú tenermi di farne cenno a Monsignore, interrompendo un discorso molto serio sugli scrupoli della coscienza a cui egli da un pezzo s’era lasciato andare con evidente compiacimento del suo eloquio.
Monsignore si voltò appena a guardare; e, con uno di quei sorrisi che fanno benissimo le veci d'un sospiro, disse:
«Ah, sí: è un povero pazzo che sta lí.»
Con tal tono d'indifferenza lo disse, come per cosa da tanto tempo divenuta ai suoi occhi abituale, che mi sorse lí per lí la tentazione di farlo sobbalzare, annunziandogli:
«No, sa: non sta lí. Sta qui, Monsignore. Quel pazzo che vuol volare sono io.»
Mi contenni, e non lo dissi. Anzi, con la stess’aria d'indifferenza gli domandai:
«E non c'è pericolo che si butti giú dal terrazzino?
«No, è cosí, da tant'anni,» mi rispose Monsignore. «Innocuo, innocuo.»
Spontaneamente, proprio senza volerlo, mi scappò detto allora:
«Come me.»
E Monsignore non poté fare a meno di sobbalzare. Ma io gli mostrai subito una faccia cosí placida e sorridente, che d'un tratto lo rimise a posto. M'affrettai a spiegargli che intendevo innocuo anch’io nel concetto del signor Firbo e del signor Quantorzo, di mio suocero e di mia moglie, e insomma di tutti coloro che mi volevano interdire.
Monsignore, rasserenato, riprese il discorso sugli scrupoli della coscienza, che a lui pareva il piú proprio al mio caso, e l'unico a ogni modo da far valere con l'autorità e il prestigio del suo potere spirituale sulle intenzioni e le mene di quei miei nemici.
Potevo fargli intendere che il mio non era propriamente un caso di coscienza com'egli s’immaginava?
Se mi fossi arrischiato a farglielo intendere, sarei d'un tratto diventato pazzo anche ai suoi occhi.
Il Dio che in me voleva riavere il danaro della banca perché io non fossi piú chiamato usurajo, era un Dio nemico di tutte le costruzioni.
Il Dio, invece, a cui ero venuto a ricorrere per aiuto e protezione, era appunto quello che costruiva. Mi avrebbe dato, sí, una mano per farmi riavere il danaro, ma a patto ch’esso servisse alla costruzione di almeno una casa a un altro dei piú rispettabili sentimenti umani: voglio dire, la carità.
Monsignore, al termine del nostro colloquio mi domandò con aria solenne se non volevo questo.
Dovetti rispondergli che volevo questo.
E allora egli sonò un vecchio annerito e insordito campanellino d'argento che stava timido timido sulla tavola. Apparve un giovane chierico biondo e molto pallido. Monsignore gli ordinò di far venire Don Antonio Sclepis, canonico della Cattedrale e direttore del Collegio degli Oblati, ch’era in anticamera.
L'uomo che ci voleva per me.
Conoscevo piú di fama che di persona questo prete. Ero andato una volta per incarico di mio padre a consegnargli una lettera su al Collegio degli Oblati, che sorge non lontano dal Palazzo Vescovile, nel punto piú alto della città, ed è un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie, ma tutto bianco, arioso e luminoso, dentro. Vi sono accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparano le varie arti e i varii mestieri. La disciplina vi è cosí dura, che quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantano al suono dell'organo nella chiesa del Collegio le loro preghiere, a udirle da giú, quelle preghiere accorano come un lamento di carcerati.
A giudicarne dall'aspetto, non pareva che il canonico Sclepis dovesse avere in sé tanta forza di dominio e cosí dura energia. Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se tutta l'aria e la luce dell'altura dove viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avessero reso le mani d'una gracilità tremula quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le pàlpebre piú esili d'un velo di cipolla. Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.
Appena entrato e informato da Monsignore dei miei scrupoli di coscienza e delle mie intenzioni, si mise a parlare con me in gran fretta, con grande confidenza, battendomi una mano su la spalla e dandomi del tu:
«Bene bene, figliuolo! Un gran dolore, mi piace. Ringraziane Dio. Il dolore ti salva, figliuolo. Bisogna esser duri con tutti gli sciocchi che non vogliono soffrire. Ma tu per tua ventura hai molto, molto da soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh... fece tanto tanto male! Sia il tuo cilizio il pensiero di tuo padre! il tuo cilizio! E lascia combattere a me col signor Firbo e il signor Quantorzo! Ti vogliono interdire? Te li accomodo io, non dubitare!»
Uscii dal Palazzo Vescovile con la certezza che l'avrei avuta vinta su coloro che mi volevano interdire; ma questa certezza e gl'impegni che ne derivavano, contratti ora col vescovo e con lo Sclepis, mi gettavano in un mare d'incertezze senza fine su ciò che sarebbe stato di me, spogliato di tutto, senza piú né stato, né famiglia.


--------------------------------------------------------------------------------

VIII. Aspettando

Non mi restava per il momento che Anna Rosa, la compagnia ch’ella voleva le tenessi durante la sua infermità.
Se ne stava a letto, col piede fasciato; e diceva che non se ne sarebbe alzata piú, se, come ancora i medici temevano, fosse rimasta zoppa.
Il pallore e il languore della lunga degenza le avevano conferito una grazia nuova, in contrasto con quella di prima. La luce degli occhi le si era fatta piú intensa, quasi cupa. Diceva di non poter dormire. L'odore dei suoi capelli densi, neri, un pò ricciuti e aridi, quando la mattina se li trovava sciolti e arruffati sul guanciale, la soffocava. Se non era per il ribrezzo delle mani d'un parrucchiere sul suo capo, se li sarebbe fatti tagliare. Mi domandò, una mattina, se io non avrei saputo tagliarglieli. Rise del mio imbarazzo nel risponderle, poi si tirò sul viso la rimboccatura del lenzuolo e rimase cosí un gran pezzo col viso nascosto, in silenzio.
Sotto le coperte sindovinavano procaci le formosità del suo corpo di vergine matura. Sapevo da Dida che ella aveva già venticinque anni. Certo, standosene cosí col viso nascosto pensava ch’io non avrei potuto fare a meno di guardare il suo corpo come si disegnava sotto le coperte. Mi tentava.
Nella penombra della cameretta rosea in disordine, il silenzio pareva consapevole dell'attesa vana d'una vita che i desiderii momentanei di quella bizzarra creatura non avrebbero potuto mai far nascere né consistere in qualche modo.
Avevo indovinato in lei l'insofferenza assoluta d'ogni cosa che accennasse a durare e stabilirsi. Tutto ciò che faceva, ogni desiderio o pensiero che le sorgevano per un momento, un momento dopo erano già come lontanissimi da lei; e se le avveniva di sentirsene ancora trattenuta, erano smanie rabbiose, scatti d'ira e perfino scomposte escandescenze.
Solo del suo corpo pareva si compiacesse sempre, per quanto a volte non se ne mostrasse per nulla contenta, anzi dicesse di odiarselo. Ma se lo stava a mirare continuamente allo specchio, in ogni parte o tratto; a provarne tutti gli atteggiamenti, tutte le espressioni di cui i suoi occhi cosí intensi lucidi e vivaci, le sue narici frementi, la sua bocca rossa sdegnosa, la mandibola mobilissima, potevano essere capaci. Cosí, come per un gusto d'attrice; non perché pensasse che per sé, nella vita, potessero servirle se non per giuoco: per un giuoco momentaneo di civetteria o provocazione.
Una mattina le vidi provare e studiare a lungo nello specchietto a mano che teneva con sé sul letto un sorriso pietoso e tenero, pur con un brillío negli occhi di malizia quasi puerile. Vedermelo poi rifare tal quale, quel sorriso, vivo, proprio come se le nascesse or ora spontaneo per me, mi provocò un moto di ribellione.
Le dissi che non ero il suo specchio.
Ma non s’offese. Mi domandò se quel sorriso, come ora gliel'avevo visto, era
quello stesso che lei s’era veduto e studiato nello specchio dianzi.
Le risposi, seccato di quell'insistenza:
«Che vuole che ne sappia io? Non posso mica sapere come lei se l'è veduto. Si faccia fare una fotografia con quel sorriso.
«Ce l'ho,» mi disse. «Una, grande. Là nel cassetto di sotto dell'armadio. Me la prenda, per favore.»
Quel cassetto era pieno di sue fotografie. Me ne mostrò tante, di antiche e di recenti.
«Tutte morte,» le dissi.
Si voltò di scatto a guardarmi.
«Morte?»
«Per quanto vogliano parer vive.»
«Anche questa col sorriso?»
«E codesta, pensierosa; e codesta, con gli occhi bassi.»
«Ma come morta, se sono qua viva?»
«Ah, lei sí; perché ora non si vede. Ma quando sta davanti allo specchio, nell'attimo che si rimira, lei non è piú.»
«E perché?»
«Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa»
«E allora io, viva, non mi sono mai veduta?»
«Mai, come posso vederla io. Ma io vedo un'immagine di lei che è mia soltanto; non è certo la sua. Lei la sua, viva, avrà forse potuto intravederla appena in qualche fotografia istantanea che le avranno fatta. Ma ne avrà certo provato un'ingrata sorpresa. Avrà fors’anche stentato a riconoscersi, lí scomposta, in movimento.»
«È vero.»
«Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.»
«Ma nient'affatto! Non riesco anzi a tenermi mai ferma un momento, io.»
«Ma vuole vedersi sempre. In ogni atto della sua vita. E come se avesse davanti, sempre, l’immagine di sé, in ogni atto, in ogni mossa. E la sua insofferenza proviene forse da questo. Lei non vuole che il suo sentimento sia cieco. Lo obbliga ad aprir gli occhi e a vedersi in uno specchio che gli mette sempre davanti. E il sentimento, subito come si vede le si gela. Non si può vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà mai a conoscersi per come la vedono gli altri. E allora che vale che si conosca solo per sé? Le può avvenire di non comprendere piú perché lei debba avere quell'immagine che lo specchio le ridà.
Rimase a lungo con gli occhi fissi a pensare.
Sono certo che anche a lei, come a me, dopo quel discorso e dopo quanto le avevo già detto di tutto il tormento del mio spirito, s’aprí davanti in quel momento sconfinata, e tanto piú spaventosa quanto piú lucida, la visione dell'irrimediabile nostra solitudine. L'apparenza d'ogni oggetto vi s’isolava paurosamente. E forse ella non vide piú la ragione di portare la sua faccia, se in quella solitudine neanche lei avrebbe potuto vedersela viva, mentre gli altri da fuori, isolandola, chi sa come gliela vedevano.
Cadeva ogni orgoglio.
Vedere le cose con occhi che non potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano.
Parlare per non intendersi.
Non valeva piú nulla essere per sé qualche cosa.
E nulla piú era vero, se nessuna cosa per sé era vera. Ciascuno per suo conto l'assumeva come tale e se ne appropriava per riempire comunque la sua solitudine e far consistere in qualche modo, giorno per giorno, la sua vita.
Ai piedi del suo letto, con un aspetto a me ignoto, e a lei impenetrabile, io stavo lí, naufrago nella sua solitudine; e lei nella mia, là davanti a me, sul suo letto, con quegli occhi immobili e lontanissimi, pallida, un gomito puntato sul guanciale e il capo arruffato sorretto dalla mano.
Sentiva verso tutto ciò ch’io le dicevo un'invincibile attrazione e insieme una specie di ribrezzo; a volte, quasi odio: glielo vedevo lampeggiare negli occhi, mentre con la piú avida attenzione ascoltava le mie parole.
Voleva tuttavia che seguitassi a parlare, a dirle tutto quello che mi passava per la mente: immagini, pensieri. E io parlavo quasi senza pensare, o piuttosto, il mio pensiero parlava da sé, come per un bisogno di rilasciare la sua spasimosa tensione.
«Lei s’affaccia a una finestra, guarda il mondo, crede che sia come le sembra. Vede giú per via passare la gente, piccola nella sua visione ch’è grande, cosí dall'alto della finestra a cui è affacciata. Non può non sentirla in sé questa grandezza, perché se un amico ora passa giú per la via e lei lo riconosce, guardato cosí dall'alto, non le sembra piú grande d'un suo dito. Ah, se le venisse in mente di chiamarlo e di domandargli: "Mi dica un pò, come le sembro io, affacciata qua a questa finestra?". Non le viene in mente, perché non pensa all'immagine che quelli che passano per via hanno intanto della finestra e di lei che vi sta affacciata a guardare. Dovrebbe fare lo sforzo di staccare da sé le condizioni che pone alla realtà degli altri che passano giú e che vivono per un momento nella sua vasta visione, piccoli transitanti per una via. Non lo fa questo sforzo, perché non le sorge nessun sospetto dell'immagine che essi hanno di lei e della sua finestra, una tra tante, piccola, cosí alta, e di lei piccola piccola là affacciata con quel braccino che si muove in aria.
Si vedeva nella mia descrizione, piccola piccola a una finestra alta, col braccino che si moveva in aria, e rideva.
Erano lampi, guizzi; poi nella cameretta si rifaceva il silenzio. Ogni tanto compariva, come un'ombra, la vecchia zia con cui Anna Rosa abitava: grassa, apatica, con gli enormi occhi biavi orribilmente strabi. Stava un pò sulla soglia, nella penombra liquida della cameretta, con le mani gonfie e pallide sul ventre; pareva un mostro d'acquario, non diceva nulla e se n'andava.
Con quella zia ella non scambiava che pochissime parole durante tutto il giorno. Viveva con sé, di sé; leggeva, fantasticava, ma sempre insofferente, cosí delle letture come delle sue stesse fantasticherie; usciva a far compere, a trovar questa o quella amica; ma le sembravano tutte sciocche e vane; provava piacere a sbalordirle; poi, rincasando, si sentiva stanca e seccata di tutto. Certi invincibili disgusti, che si potevano indovinare in lei da uno scatto o da un verso improvviso per qualche allusione, forse li doveva alla lettura di libri di medicina trovati nella biblioteca del padre, ch’era stato medico. Diceva che non avrebbe mai preso marito.
Io non posso sapere che idea si fosse fatta di me. Mi considerava certo con uno straordinario interesse smarrito come in quei giorni le apparivo nei miei stessi pensieri e nell'incertezza di tutto. Quest'incertezza che in me rifuggiva da ogni limite, da ogni sostegno, e ormai quasi istintivamente si ritraeva da ogni forma consistente come il mare si ritrae dalla riva; quest'incerteza, vaneggiandomi negli occhi, senza dubbio la attraeva, ma a volte, guardandola, avevo pure la strana impressione che le paresse un pò divertente; una cosa infine un pò anche da ridere, avere lí ai piedi del letto un uomo in quelle incredibili condizioni di spirito, cosí tutto scisso e che non sapeva come avrebbe fatto a vivere domani, quando, riavuto per mezzo dello Sclepis il danaro della banca, si sarebbe spogliato e liberato di tutto.
Perché ella era certa che io sarei ormai arrivato alle ultime conseguenze, come un perfettissimo pazzo. E questo la divertiva enormemente, con un certo orgoglio, anche, d'avere indovinato, nelle discussioni con mia moglie, non propriamente questo, ma ch’io fossi ad ogni modo un uomo non comune, singolare dall'altra gente; da cui ci si poteva aspettare, un giorno o l’altro, qualcosa di straordinario. Come per dare subito agli altri, e specialmente a mia moglie, la prova ch’ella aveva avuto ragione nel pensare cosí di me, s’era affrettata a chiamarmi, a informarmi delle intenzioni che si avevano contro di me, a spingermi ad andare da Monsignore; e adesso era di me contentissima, vedendomi là ai piedi del suo letto, come mi vedeva, fermo e placido in attesa di quanto doveva necessariamente avvenire, senza piú cura di nulla né di nessuno.
Eppure fu proprio lei a volermi uccidere, e proprio quando da questa soddisfazione ch’io le davo, e che la faceva un pò ridere, passò a una grande pietà di me, per rispondere, come affascinata, a quella che, certo, io dovevo avere negli occhi, mentre la guardavo come dall'infinita lontananza d'un tempo che avesse perduto ogni età.
Non so precisamente come avvenne. Quand'io, guardandola da quella lontananza, le dissi parole che piú non ricordo, parole in cui ella dovette sentire la brama che mi struggeva di donare tutta la vita ch’era in me, tutto quello che io potevo essere, per diventare uno come lei avrebbe potuto volermi e per me veramente nessuno, nessuno. So che dal letto mi tese le braccia; so che m'attrasse a sé.
Da quel letto poco dopo rotolai, cieco, ferito al petto mortalmente dalla piccola rivoltella ch’ella teneva sotto il guanciale.
Devono esser vere le ragioni ch’ella poi disse in sua discolpa: cioè che fu spinta ad uccidermi dall'orrore istintivo, improvviso, dell'atto a cui stava per sentirsi trascinata dal fascino strano di tutto quanto in quei giorni io le avevo detto.
 
Top
XRumerTest11
view post Posted on 5/6/2015, 02:46




Hello. And Bye.
 
Top
10 replies since 7/4/2005, 00:25   4451 views
  Share